Da un articolo dell’italianista
Ferroni, allievo di Walter Binnni e autore di una eccellente storia della
letteratura italiana riprendo gran parte di un articolo che dà conto di un
nuovo fervore di studi danteschi. (S.L.L.)
Una nuova edizione della
Monarchia
e un nuovo commento
all’ultimo canto del Paradiso
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L’Alighieri pensava alla grande
politica,
orientata verso la realizzazione
della conoscenza e della felicità.
Centenari e ricorrenze di vario
genere portano alla ribalta situazioni del passato, capolavori delle arti e
della letteratura, che spesso, passate quelle ricorrenze, tornano nell’ombra:
al sistema delle celebrazioni culturali si potrebbe riferire ciò che Leopardi,
in una delle prime pagine dello Zibaldone, dice della sensazione data dagli
anniversari. Questi danno l’illusione «che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l'idea della
distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di
quelle cose che vorremmo presenti effettivamente».
Davvero sempre più spesso capita
che certe ricorrenze offrano una piccola vita provvisoria a forme e modelli
culturali sempre più lontane dall’orizzonte pubblico: cultori, eredi,
concittadini di questo e di quello si danno un po’ da fare per portare sulla
scena come «presenti effettivamente» nomi e opere spesso note solo a pochi
specialisti. Lo sa bene chi si occupa di letteratura e nella sua vita ha avuto
modo di seguire (anche partecipandovi) centenari, cinquantenari o altro...
Ci sono però pochi autori la cui
presenza si impone al di là di ogni spirale celebrativa: per essi i centenari,
visti e preparati da lontano, possono suscitare un particolare fervore di
iniziative, capaci di dare nuova intensità a una presenza pervicacemente
resistente pur nel quadro di un mondo che sembra sempre più allontanarsi dalla
letteratura. Così accade per il più grande di tutti, quello che è davvero il
«padre» della nostra lingua, Dante: in vista del settimo centenario della morte
(2021) sono in atto vari progetti, tra cui si impongono quelli del Centro Pio
Rajna, diretto da Enrico Malato, che hanno al centro una nuova edizione
commentata delle Opere di Dante, che
raccoglie tutto il frutto dell’immenso lavorio del precedenti commenti e offre
una fitta serie di apparati, di strumenti di lettura, e anche di testi
collaterali a quelli danteschi. Si tratterà di otto volumi in più tomi (Salerno
editrice), il cui insieme ambisce a venire in porto appunto nel 2021 (ma c’è
anche una tappa intermedia, con la ricorrenza nel 2015, dei 750 anni dalla
nascita di Dante), e che ha già visto nel 2012 l’uscita del volume III (De vulgari eloquentia), del primo tomo
del VII (Fiore e Detti d’amore, opere
di dubbia attribuzione), e ora del IV, Monarchia,
a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni con la collaborazione di Diego Ellero.
Tra le opere di Dante la
Monarchia è quella più direttamente legata ai modelli della prosa scientifica
medievale, in cui si esprime nel modo più netto l’affermazione della necessità
di una monarchia universale (l’impero), destinata a instaurare la pace e la
giustizia, guidando l’umanità verso la felicità terrena: negando ogni
subordinazione dell’autorità imperiale a quella del papato, a cui invece spetta
il compito di guidare l’umanità verso la vita eterna. Questa edizione collega a
un’introduzione che offre un’ampia sintesi storica, critica, filologica una
fittissima annotazione del testo latino (con traduzione italiana a fronte) e una
serie di altri materiali di grande interesse: da scritti polemici di parte
papale del secolo XIV contro le tesi centrali dell’opera di Dante (del resto
nel 1329 il libro fu fatto bruciare a Bologna e nel Cinquecento fu messo nell’Indice dei libri proibiti), al Commentarium che ad essa dedicò con
fervida adesione Cola di Rienzo, al volgarizzamento che nel 1468 ne fece
Marsilio Ficino.
Pur strettamente iscritta in un
orizzonte tutto «medievale», la Monarchia
ha alimentato nei secoli una prospettiva di tipo «laico», con la sua
determinante separazione tra potere politico e autorità religiosa, nel quadro
di una legittima aspirazione umana ad una «felicità» tutta terrena: essa
identifica questa felicità secondo una prospettiva aristotelica, come piena
attuazione di tutte le possibilità dell’intelletto umano, di una conoscenza
capace di tradursi in azione e di realizzare il bene.
La sua argomentazione fa leva su
di un profondo senso della responsabilità della scrittura, del suo necessario
rivolgersi verso la ricerca di una «verità» rivolta al bene degli esseri umani:
in una visione dell’unità del genere umano e della necessità di un potere
universale, il solo capace di rendere possibile pace e giustizia. E certo se
oggi siamo tanto lontani dal suo orizzonte storico, filosofico, linguistico,
questo richiamo ad una grande politica universale, orientata verso la
realizzazione della conoscenza, sola garanzia di felicità e di giustizia, resta
determinante ancora per noi, di fronte ai pericoli di un mondo che procede ciecamente,
che si affida all’esteriorità dell’apparenza e alla violenta indeterminatezza
dell’economia finanziaria.
Non si deve dimenticare, d’altra
parte, che con la sua poesia Dante mira ad andare «più in là» dello spazio
finito dell’esistenza umana: con il suo grande poema guidato da una passione
assoluta per una vita giusta e felice e nel contempo teso verso qualcosa che
sfugge ad un controllo umano, fino alla visione di Dio in cui culmina il
Paradiso. All’ultimo canto del Paradiso,
come parziale «campione» dell’edizione commentata della Commedia prevista per il centenario del 2021, Enrico Malato dedica
ora un piccolo prezioso libretto, Dante
al cospetto di Dio (Salerno editrice, 2013, pp.92, €.7.90), che conduce il
lettore entro la sfida dantesca all’indicibile, nella vertigine di quella
visione «impossibile». Vi si nota, tra l’altro, l’audacia della scelta di Dante
di aggirare «il divieto biblico ed evangelico della visione di Dio», di attribuirsi
il privilegio di esservi giunto «addirittura con il proprio corpo», fino a
collocarsi alla fine in «coincidenza o sintonia con la ruota dell’universo,
mossa dall’amor divino». In questo approdo supremo trova la sua massima
manifestazione quella tensione del grande poeta verso un punto di vista
“universale”, che si svolge in tutta la sua opera e che, sul più circostanziato
piano politico, agisce con spregiudicatezza nella Monarchia.
l’Unità 12.12.13
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