L’articolo sul “Corriere” da cui
è tratto l’ampio brano qui ripreso rispondeva ad una singolare (e un po’
stupida) proposta circolata nel 1984 a proposito di lotta alla mafia. Con
qualche eufemismo si lasciava intendere che i siciliani, anche quando fanno i
magistrati, sono tutti un po’ mafiosi o, comunque, tanto influenzabili dall’ambiente da diventare con esso incompatibili. Leonardo Sciascia dedica al tema specifico solo la parte finale
dell’articolo, preceduta dall'exemplum che qui si legge, un
capolavoro di ironia, di finezza analitica, di stile. (S.L.L.)
Lo scrittore di Polizzi Generosa, Giuseppe Antonio Borgese a Chicago con la moglie Elisabeth Mann (figlia di Thomas) |
"Noi siciliani," diceva
Lucio Piccolo quando si crucciava di qualche critico dell'Italia del Nord che
non capiva la sua poesia o non la degnava di attenzione, "siamo
antipatici". Non ne cercava le ragioni: e credo ritenesse non ce ne
fossero se non a rovescio, contro ogni ragione. E del resto l'antipatia di
ragioni non ne ha mai. Era, la sua, una constatazione ormai, per assuefazione,
appena dolente: rassegnata, accettata. E in un certo senso goduta, poiché è
degli uomini diciamo speculativi, la capacità di estrarre da una condizione
infelice una certa felicità, una sottile allegria.
Insistentemente questa sua
affermazione mi si ripete in questi giorni nella memoria (con la sua voce, con
la sua espressione quando la pronunciava, col suo avido aspirare dalla
sigaretta prima e dopo averla pronunciata): e non tanto per la polemica contro
i giudici siciliani, che c'è chi vorrebbe sottrarre all'endemia mafiosa
trasferendoli in altre regioni d'Italia, quanto per una letterina, che un amico
mi ha mandato in fotocopia, che Pietro Paolo Trompeo mandava ad Arrigo Cajumi
il 23 ottobre del 1952.
Premetto che ho sempre cercato ed
amato le cose scritte da Trompeo, e specialmente le sue pagine stendhaliane,
d'impareggiabile passione e finezza. Ho avuto anche il piacere di conoscerlo:
uomo di una mitezza, di una tolleranza, di una gentilezza come pochi già se ne
incontravano e pochissimi oggi se ne incontrano. Imbattermi dunque in questa
sua letterina a Cajumi, in un giudizio duro ed ottuso non solo su un uomo, uno
scrittore, che - sgradevole che fosse il suo comportamento - meritava e merita
rispetto e attenzione, ma effettualmente sulla Sicilia intera, sui siciliani
tutti, è per me motivo di delusione e di amarezza. Continuerò a leggere e ad
amare Trompeo (e anzi sto rileggendo le sue Rilegature
gianseniste); ma ora con questa piccola spina del suo intollerante e poco
intelligente giudizio su Giuseppe Antonio Borgese e sui siciliani. Ed eccolo:
"L'altra sera ebbi la malinconica idea di accettare un invito di Mondadori
per un ricevimento all'Excelsior in onore di Borgese. Faceva da padrona di
casa, molto graziosamente, Alba de Cespedes; e c'erano molti cari amici: ma
lui, Peppantonio, che volgare padreterno! L'America e la vecchiaia l'hanno
ancora di più sicilianizzato."
Bisogna spiegare, poiché pochi
italiani sanno di Borgese, della sua vita, della sua opera, che lo scrittore
siciliano - prestigioso critico letterario e forse, dalle colonne di questo
giornale, il più autorevole; autore di inquiete e inquietanti opere narrative;
drammaturgo, poeta - era emigrato negli Stati Uniti al principio degli anni
trenta. All'Università di Milano, dove insegnava, le violenze dei fascisti e le
delazioni dei colleghi gli rendevano la vita impossibile: e si annunciava
l'obbligo, per tutti i professori universitari, di giurare fedeltà al fascismo.
Obbligo cui si sottrassero, perdendo l'insegnamento, non più di una dozzina di
professori, in tutta Italia. Borgese fra questi. Non faceva politica, ma
politica era la sua visione delle cose italiane passate e presenti: e di una
intelligenza e giustezza da rendersi naturalmente avversa al fascismo.
All'occasione, dunque, che gli si offrì di andare ad insegnare in una
università americana, lasciò l'Italia con l'intenzione di non tornarvi se non a
fascismo finito.
Nel 1938 Longanesi in un suo
diario annotava: "Fra vent'anni nessuno immaginerà i tempi nei quali
viviamo. Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti
d'ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto". Ma proprio
intorno a quell'anno, Borgese pubblicava, scritto in inglese, il libro che
ancora oggi, più dei tanti altri che poi sono stati scritti, ci racconta e
spiega quel che agli italiani è accaduto tra il 1919 e il 1943, quel che agli
italiani - con altri nomi o senza nomi, sotto altri aspetti - ancora accade: Golia, la marcia del fascismo (in
traduzione italiana apparso nel 1946). Né va dimenticato che gli ultimi anni
della sua vita (morì a Fiesole nel dicembre del 1952), Borgese li dedicò
all'idea della pace mondiale: fatto che dovrebbe oggi richiamare grande e
cordiale attenzione alla sua figura.
E c'è da immaginarla, quella
serata in onore di Borgese. Se persino il mite Trompeo se ne era irritato,
figuriamoci gli altri. Che "malinconica idea", l'esserci andati. E
che "malinconica idea", quella di Mondadori, di festeggiare il
ritorno di Borgese (e qui bisogna dire, ad onore di Mondadori, che forse lui e
Attilio Momigliano furono i soli a non far dimenticare agli italiani l'esule e
antifascista Borgese: la "Biblioteca romantica" continuò a portare la
dicitura "diretta da G. A. Borgese" e la storia della letteratura
italiana del Momigliano, largamente adottata nelle scuole, invogliava a cercare
quei libri di Borgese che stavano diventando introvabili). Con un uomo che
fortemente sentiva di sé, ma più con ingenuità che con arroganza, e che dopo
quasi vent'anni tornava avendo avuto su tutto ragione e senza aver nulla da
rimproverarsi, l'incontro non poteva essere facile, tutti, o quasi, avevano
avuto torto; tutti, o quasi, avevano qualcosa da rimproverarsi. Il meno che
tutti, o quasi, avevano fatto durante il ventennio fascista, era il giuramento
universitario o l'articolo sulla prosa del duce o l'approvazione per
l'abolizione del "lei" e della stretta di mano. Il meno. Qualunque
cosa Borgese in quella serata dicesse non poteva che toccare ricordi che si
volevano rimuovere e code di paglia. Un "volgare padreterno", dunque;
un siciliano che l'America e la vecchiaia avevano reso ancor più siciliano:
poiché all'essere siciliano, come al peggio e in quanto peggio, non c'è fine.
Anche per il mite, tollerante, gentile Trompeo.
Mi sono dilungato su questo
esempio dell'antipatia che i siciliani godono in quanto siciliani. Potrei
addurne tanti altri, restando nel campo della letteratura e non ultimo, per
rilevanza e nel tempo, quello di Quasimodo. Sempre Quasimodo avvertì intorno a
sé un'avversione, una persecuzione quasi ("Uomo del Nord che mi vuoi
minimo o morto per la tua pace"); e la si considerava una specie di mania.
Ma quando, nel 1959, gli fu conferito il premio Nobel, si ebbe la prova che non
c'era nulla di maniacale nell'ostilità di cui si sentiva circondato: credo che
nessun paese, mai, abbia reagito come l'Italia letteraria ha reagito
all'assegnazione del Nobel a Quasimodo. Come ad una offesa. Juan Ramon Jiménez
era fuoruscito, in esilio, quando ebbe il Nobel: ma se ne rallegrò anche la
Spagna franchista. Né si può dire che Quasimodo fosse al di sotto della media dei
Nobel: basta scorrerne l'elenco dal 1901 ad oggi.
Ora se questo accade, come
accade, a livello di "civiltà perfezionata", non c'è da meravigliarsi
che tale antipatia, digradando e degradandosi in certe piaghe di stupidità
collettiva, arrivi ad invocare l'Etna a che dia lava a seppellire intera la
Sicilia con tutti i siciliani.
Corriere della Sera, 2 settembre
1984, poi in A futura memoria,
Bompiani, 1988
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