12.12.13

Senza nessuna difesa. Gli intellettuali e Marylin (Tommaso Chiaretti)

Ancora su Marilyn, un articolo di accusa contro gli intellettuali, americani e non solo, che ne vorrebbe smascherare l’orribile maschilismo. Ma ho l’impressione che Chiaretti, in genere critico cinematografico non banale (penso a certe intuizioni su Chaplin), in questo caso sia lui il peggiore dei maschilisti: molte testimonianze dicono che l’immagine volgare di una Marylin incapace di capire ciò che leggeva e ciò che diceva è – oltre tutto – falsa. (S.L.L.)


Le fecero una quantità di sadici scherzi: il più crudelmente raffinato fu una fotografia di Philippe Halsman: Marilyn è accovacciata per terra, in un angolo della sua casa (o forse in un teatrino adeguatamente arredato di luci) indossa un trasparente negligé nero, e legge un libro, tenendolo alla distanza massima che le permettono le braccia, per via del sottolineato difetto di vista. Si appoggia a una scaffalatura ricolma di libri bene allineati, che non hanno l'aria di pocket, bensì di non letti onerosi saggi. La posa è del tutto stravagante. Ma a renderla penosa, c'è una fotografia posta nel centro ottico del quadro, sul mobiletto a destra: un ritratto di Eleonora Duse. L'accostamento è perfido e oltraggioso, è il segno di una delle tante violenze che la società americana, o più riduttivamente la società maschile americana, o se vogliamo la società maschile «intelligente» americana, ha esercitato su Marilyn. C'è un'altra fotografia, quella che la ritrae ben fasciata mentre sale le scalette dell'Actor's Studio, e un'altra ancora, la più sottile e raffinata, perché è di Avedon. Servì per illustrare il noto articolo di Arthur Miller: Mia moglie Marilyn, dove è evidente già nel titolo l'orgoglio, la vanità del compiuto possesso della cosa. Marilyn è in secondo piano, il protagonista è lui, l'intellettuale severo che si permette un magro sorriso mentre la ballerina gli cinge il collo.
Un editore argentino, meritorio per avere pubblicato Brecht, mi raccontava dello sconcerto angosciato di certe sue visite in casa di Miller, all'epoca in cui erano sbarcati in America i pellegrini della sinistra martire europea Montand e Signoret: che se ne stavano accoccolati nel salotto a discutere di Sartre e della repressione. Già. E lei, Marilyn, passava lunghissime straniate nevrotiche consolatorie pause a lavarsi i capelli. E la matura attrice francese ordinava all'immatura ragazza col golfino d'angora di portare il ghiaccio per il whisky. Meglio allora Joe Di Maggio, che trascorreva inestinguibili serate a guardare la televisione ai piedi del letto: una violenza più tangibile e sicura, uno specchio servile del modo di vita americano non contestato.
All'Actor's Studio, frequentato da un manipolo di geni compresi della recitazione introversa, le dettero da leggere Stanislavsky per poter interpretare la sciancata zitella Bianche Dubois nel Tram chiamato desiderio. Altri le dissero che c'era un personaggio fatto su misura per lei, ed era la Gruscenka dei Fratelli Karamazov, e lei ripetè, senza capire perché i giornalisti ridevano. Mankievicz, che trovò nella sua borsa un libro di poesie di Rilke l'aggredì in pubblico, che cosa le era preso, a leggere quella roba? Gliel'aveva forse raccomandata qualcuno? Certo, i cosidetti intellettuali di colpe ne hanno tante, e sopratutto hanno quel maledetto complesso di Pigmalione, per cui son certi di non poter sedurre una donna se non con una lista di libri da leggere, compilata come se rispondessero a un sondaggio del supplemento letterario del «Times». E poi, si sa, son capaci di spiegare tutto, ogni piccola e grande nevrosi e anomalia del comportamento: i favoleggiati ritardi di Marilyn, ovvia dichiarazione di insicurezza, e la sua balbuzie ricorrente, via giù con le carenze affettive, e addirittura la sua miopia, di derivazione ovviamente psicosomatica. C'era tutto nei libri, e Marilyn recava con sé regalatale da uno psicanalista cialtrone, la Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, che certificava le valenze catalogate di ognuno dei suoi lapsus.
La ragione del così consistente «effetto Marilyn» su alcune generazioni di intellettuali che ne hanno fatto un mito, è in questa pronta identificazione del partner succube, di una tortura da assaporare, della possibilità di ripetere, magari con gesti masturbatori, la più concreta violenza, lo stupro, il primo dei molti, che la piccola Norma Jean aveva cominciato a subire a nove anni. Alle figure di donne e di attrici esse stesse intellettuali, e soprattutto dotate di greve autorità maschile, agli idoli androgini come le Joan Crawford e le Bette Davis, e sopratutto l'inquietante Garbo, tutte capaci di vestire panni di dame e di cavalieri, si poteva sostituire ora qualcosa che fosse inequivocabilmente tutto sesso, senza altri ricatti. C'era stata Mae West, ma lei era ben altra cosa: lei il sesso lo gettava in faccia agli uomini ridendo e insultando, come una matura puttana che conosce tutti i vizi del suo povero disgraziato cliente. Marilyn si presentava senza nessuna difesa, un fiore all'occhiello di cui ci si sarebbe dovuti vergognare, se non fosse stato per l'invidia totalizzante che suscitava. E dunque Miller poteva scioccamente dichiarare: «Ho sposato la donna più sexy del mondo». Lui non si sbagliava. Aveva sbagliato lei, che s'era illusa di avere sposato l'uomo più intelligente del mondo.


“la Repubblica”, 31 luglio 1977

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