Da una carta dell'Europa del XVII secolo (John Speed) |
Ma c’è un’altra «leggenda di
Costantinopoli», quella dei viaggiatori di ogni epoca e provenienza che hanno
visto e descritto la «seconda Roma» mettendo in salvo, con le relazioni di
viaggio, l’immagine autentica della capitale. Ed è a questo immenso tesoro di
testimonianze che ha attinto, dedicandovi molte energie in un momento non
facile, Silvia Ronchey. È nata, così, una imponente antologia ragionata: Il romanzo di Costantinopoli. Guida
letteraria alla Roma d’Oriente (Einaudi). È questo un sapiente repertorio
che corona una lunghissima militanza dell’autrice (qui coadiuvata da Tommaso
Braccini) come bizantinista, riconosciuta autorevole nella res publica litterarum.
L’impianto è per l’appunto quello
di una «guida», che raccoglie i resoconti e le descrizioni di viaggiatori e
storici da Procopio al tempo nostro. Ottimi indici agevolano la consultazione,
di un libro che non solo si consulta ma assai piacevolmente si legge. È
inerente al carattere obiettivo del libro il fatto che si tratti sempre di
testimoni veri, non di viaggiatori immaginari, che pure — sull’onda
dell’orientalismo — non sono mai mancati: basti pensare all’influentissimo
Ingres, che — senza aver mai visitato terre d’Oriente — dipinge il bagno turco
sulla base di una minuziosa, celebre, lettera di lady Montagu. Qui abbiamo,
invece, testimoni diretti.
Frequentare quel mondo non era
agevole. Ferma restando una sospettosità preventiva, tipica di chi avvertiva
l’insofferenza «occidentale» nei propri confronti, spiccava anche — da parte
dell’élite turca — una diversa percezione del tempo e, di conseguenza, una
diversa organizzazione di vita, oltre allo sforzo di non piegarsi volentieri a
parlare la «lingua degli altri». È l’esperienza fatta dal celebre falsario e
cleptomane greco Minoide Mynas quando visita il monastero di Soumelà sul mar
Nero (nei pressi di Trebisonda) e si trova davanti un elemosiniere di 110 anni
parlante unicamente il turco (lo racconta nel suo diario, tuttora inedito, alla
data del 14 novembre 1844). È l’esperienza di Karl Müller, il grande
«dilettante» ed eccellente editore dei Geografi
greci per Firmin Didot, inviato dal suo editore parigino a cercare nella
Biblioteca del Serraglio un Tolomeo di cui si favoleggiava fosse «gonfio di
aggiunte dei dotti bizantini», e che si scontra con l’immobilismo del
bibliotecario, Ibrahim Efendi, e del suo entourage «talmente turco — protesta Müller
in una lettera del 1867 — che non conosce neanche il francese»! Müller descrive
anche la sua lenta «marcia di avvicinamento» ai manoscritti (rivelatisi, alla
fine, deludenti): ha dovuto in primo luogo cercare l’ambasciatore francese, ma
questi — ammalato di gotta — era in tutt’altra località; l’ambasciatore gli ha
ottenuto un permesso di entrata, ma valido solo di lì a otto giorni; tempo
prezioso è stato inoltre sprecato in stentate conversazioni e estenuanti bevute
di tè; per terminare la collazione ha dovuto prolungare il soggiorno tanto da
spendere fino all’ultimo «napoleone». Una esperienza che non ha certo
rafforzato la sua simpatia per quel mondo...
Il viaggiatore competente non
esiste a priori: lo diventa viaggiando, se ha stoffa e curiosità. Facciamo un
esempio. Tra i molti protagonisti del libro vi è un memorabile e avventuroso
Patrick Leigh Fermor, il cui racconto di viaggio in Grecia (Mani) — risalente al 1958 — è un modello
di dottrina «militante», acquisita cioè sul campo. È celebre il suo exploit, il
viaggio a piedi fino a Costantinopoli (dicembre 1933) con pochissimo danaro
nello zaino. E altrettanto celebre è la cattura ad opera sua (era allora
maggiore dei paracadutisti della RAF) del comandante tedesco a Creta, generale
Kreipe (1941).
Ma torniamo al racconto Mani. L’arte bizantina attrae
ripetutamente l’attenzione di Leigh Fermor. Nel brano incluso in questa
silloge, tratto dal XV capitolo («Icone») e felicemente intitolato dai curatori
L’estate di San Martino dell’arte
bizantina, egli segnala quello scatto, «morto sul nascere», di indipendenza
dai rigidi canoni tradizionali che l’arte bizantina tentò (egli ritiene) dopo
il rientro del legittimo imperatore a Bisanzio e la fine dell’impero «latino»
(1204-1261). Dei rigidi canoni bizantini egli discorre sin dal principio del
capitolo «Icone», e ne attribuisce la «codificazione» — così si esprime — a un
«monaco pittore del XVI secolo, Dionigi di Furnà». «Questo — soggiunge —
formalizzò una tradizione di secoli in un dogma iconografico, deviare dal quale
diventò per così dire sinonimo di scisma. Fu lui che rese gli stuoli di santi,
martiri e profeti identificabili all’istante». E si spinge a sostenere che
quell’arte si poneva, o pretendeva di porsi, in rigida continuità rispetto alle
matrici greco-ellenistiche, allo stesso modo che il pensiero patristico
rispetto alla filosofia greca.
Leigh Fermor era caduto in
trappola. Dionigi di Furnà infatti non è un «bizantino»: è un monaco vissuto
all’Athos al principio del ’700. Il suo trattato era stato riscritto da uno che
all’Athos era di casa, Costantino Simonidis, il quale rese più antica e più
«pura» la lingua in cui quel trattato era scritto e vi inserì frasi che
fissavano la stesura del Trattato di
pittura sacra (è questo il titolo) all’anno 1458. E teorizzò che l’arte
bizantina era la prosecuzione, senza influenze «asiatiche», recta via dell’arte ellenistica. Leigh
Fermor era anche un grandissimo autodidatta, che di sicuro avrà letto il
trattato di Dionigi nella traduzione francese di Durand (1845), fondata sulla
copia che Simonidis aveva venduto a Durand. E dunque, senza saperlo, si era
fatto propagatore, nelle sue ammirevoli pagine, delle teorie «patriottiche» del
grande falsario. (E a fortiori non poteva sapere ciò che si è constatato da
ultimo, che cioè il primo rigo del Trattato di Dionigi riappare
«miracolosamente» nel primo rigo del famigerato pseudo-Artemidoro!).
“Corriere della Sera” 18.10.2010
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