Dario Bellezza, nato a Roma nel
1944, vi morì il 31 marzo del 1996. Questo è il ricordo che ne fece subito dopo
Gianni D’Elia sul “manifesto”
Tirar via i libri dagli scaffali,
rileggere i versi di Dario Bellezza: «Ma mi accora la tua foto/ dove inerme
guardi velato/ di tristezza l'arido mondo.// Dove la certezza dell'amore/ è
solo la quiete inquieta/ della fine». Versi del suo libro d'esordio (1971), Invettive e licenze, ristampato nel '91
da Garzanti.
I poeti se ne vanno, lasciando il
silenzio forte della poesia, tra malattie epocali offerte alla spudoratezza dei
media, o suicidandosi in un cortile come Amelia Rosselli, vissuti poveri e
morti poveri. Ed è la verità, senza retorica, se non della vita che si specchia
nelle lettere della diversità. Lettere da
Sodoma (1972), amori e avventure in un romanzo epistolare e omosessuale di
grande impatto espressivo. Sintassi secca, rivisitazione del modello foscoliano
in chiave incivile, dissidente, da contestazione passiva e assoluta. Poesia
come Morte segreta (1976).
Sempre un rapporto tra vittima e
carnefice, inseguito e inseguitore, corpo e spirito: un monologo rivolto
all'altro, ininterrotto. A sforare i generi: dal verso alla frase di romanzo,
dalle poesie alle prose impoetiche. La dura pronuncia di Bellezza, quel suo
modo di fare lirica con l'antilirica della brama d'amore, rimarrà come la sua
cifra più efficace, con una capacità di attraversamento e di indifferenza dei
generi, fino al monologo teatrale di Testamento
di sangue (1994) e al poema romanzesco gidiano di Nozze con il diavolo (1995). Il classicismo del verso di Bellezza,
battuto su un endecasillabo funzionale al racconto elegiaco e alla sprezzatura
amorosa, è un segno di tradizione ottocentesca (leopardiana), nel contrasto con
la ferialità tematica del quotidiano. Desiderio e paura del desiderio, come per
grumi tasseschi (e tutta la poesia di Bellezza, libro per libro, appare come un
unico poema di guerra d'amore, dove le armi restano ma cambiano gli attanti:
ragazzi di vita invece di donne, reietti invece di cavalieri), con un orecchio
musicale ai toni aspri, narrati come per dispetto e provocazione, più che
cantati in rima, affidando all'accento del verso il ruolo poe¬tico più che alla
soddisfazione sonora della sequenza. Al verso singolo, più che alla strofa:
«questo nulla che possa consolarmi». Forse, era un suo modo di rendere omaggio
alla tradizione latina (lui, romano) dell'epigramma, alla concentrazione oraziana della satura
narrativa. Amore, morte, malanno, denuncia, nostalgia dell'innocenza «di
sapersi normali», ricordando «come era bella». Dalla trasgressione al senso di
colpa.
«Una voglia di vivere oltre le
età/ che ci furono date in sorte», come in un testo del libro io (1983), dove il colloquio con l'arte
e l'artista, la poesia e il poeta, è già da sempre In memoriam . Postumo, cioè, a se stesso, Bellezza ha forse
incarnato l'ultima idea romantica della poesia in Italia, dando voce a chi, in
quegli anni di declino della contestazione politica, non voleva e non poteva
averla in proprio. Il suo scandalo, dopo Pasolini e Penna, è stato quello di
credere che si possa vivere facendo il poeta, senza altri incarichi che quelli
di un precario lavoro letterario, di traduttore o critico occasionale. Ci ha
parlato così di una sua macerazione, di una disfatta dell'io per una rinascita
Crudele, credendo di dover pagare anche per la propria voce sempre in primo
piano, quando invece la sua fraterna lezione è stata proprio quella di una
implosione dell'io, autopunizione ed esposizione scandalosa del soggetto
lirico, fino alla resa dei conti tra vita e poesia. La «poesia ormai sconfitta»
trova solo nell'impoetico della vita il suo riscatto ed ecco il paradosso: il
classicismo del verso e la sua sconfessione tematica, il poeta d'amore e il
diario della disperazione esistenziale, sulle orme del nichilismo inattuale
della nostra tradizione materialistica, che da Leopardi giunge a Pasolini, per
fraternità di dissenso e di stile.
“il manifesto”, 2 aprile 1996
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