Dalla recensione di Pietro Citati
a una nuova traduzione ed edizione italiana del Corano
(Il Corano, a cura di Alberto Ventura, Mondadori, collezione
Islamica), giudicata di grande qualità, riprendo ampi stralci, centrati sulla
sua lettura e interpretazione del grande libro di Maometto. (S.L.L.)
Il primo e l’ultimo dei libri
Il Corano è un singolarissimo libro sacro. Discorre di sé, si
interpreta, si analizza, si descrive, dubita di sé, si esalta, con una
eloquenza che non viene mai meno. Parla delle proprie origini. Il Corano
non è soltanto il volume che oggi teniamo nelle mani, e nemmeno le fibre e le
foglie d´albero sulle quali Maometto e i suoi amici incisero la rivelazione, ma
è innanzi tutto il proprio archetipo celeste. Prima che il tempo avesse inizio,
Dio incise le proprie parole, in caratteri di luce, su una materia
incorruttibile. Questa tavola è custodita: cioè sta al riparo di ogni minaccia
di alterazione; non muterà né si deformerà mai, immutabile come i veri libri.
Mentre il Corano stava lassù, fermissimo e invisibile, oltre il settimo
cielo, cioè prossimo a Dio, cominciava la sua lenta ed incessante discesa, che
da principio comprese la Torà e i Vangeli. La Torà e i Vangeli non sono Il Corano, ma lo contengono in potenza,
e come in enigma. Il Corano comprende
la Torà e i Vangeli, perché è il libro del ricordo: richiama innumerevoli
luoghi della Bibbia ed esalta i profeti ebraici: ciò che là è racconto diventa
qui predicazione divina; e viene interpretato, chiarito, confermato. «Il seme
produce un germoglio che poi si rafforza, si irrobustisce e si alza saldo sul
gambo».
Poi Il Corano si sposta verso il futuro e la fine. Comprende l´ultima
ora, che verrà all´improvviso come nei Vangeli, e anzi è già avvenuta, nelle
pagine di Maometto, dove echeggia il boato della tromba celeste, il cielo si
spacca, rosso come cuoio lucidato, le stelle si offuscano, i monti sono
rimossi, i mari ribollono, e le donne gravide abortiscono. Appaiono «i giardini
alle cui ombre scorrono i fiumi», dove i fedeli resteranno in eterno: il
Paradiso, che è il leitmotiv musicale del grande testo. Così Il Corano è sia il primo libro inciso
nella luce prima dei tempi, sia l´ultimo libro, che noi leggiamo mentre
crediamo di abitare nel presente. Niente, a rigore, potrebbe essere scritto
dopo Il Corano: o infiniti commenti,
chiose, analisi e interpretazioni, contenuti dentro Il Corano come il gheriglio dentro la noce.
Chiarissimo e incomprensibile
Questo archetipo celeste, questa
"tavola custodita", Dio la fece discendere su Maometto: sebbene fosse
un uomo, nient´altro che un uomo, capace di mancanze e di errori. Come disse
Aisha, l´ultima delle sue mogli, «la natura di Maometto era intera Il Corano». Dio gli rivelò tutto il
libro nel corso di un´unica notte, detta "la notte del destino". Poi,
via via che gli anni passavano, ripeté la sua rivelazione nel tempo, sotto la
forma di versetti comunicati - soffio dopo soffio, tocco dopo tocco - durante
ventitré anni.
Se usiamo le parole dei moderni,
Maometto compì un´impresa prodigiosa, alla quale si rifiutarono sempre gli
ebrei e i cristiani. I Vangeli non sono la trascrizione diretta delle parole di
Gesù: sono immensamente più discreti, perché si accontentano di raccogliere le
tradizioni, che avevano trascritto e ricordato le sue parole. Maometto, invece,
ha inventato la parola di Dio, senza alcun timore di compiere un atto empio. Ha
trasformato la sua voce umana in una voce dettata dal cielo. Così ora sentiamo,
attraverso di lui, la parola di Dio, letta, proclamata, predicata ad alta voce.
La sentiamo mentre si rivolge in primo luogo a Maometto, il suo
"servo", il suo intermediario, e poi a tutti gli uomini, fedeli o
miscredenti. La sentiamo vicinissima, come risuonasse, accanto a noi, sulla
terra, nel tempo presente. Ne sentiamo il suono, il ritmo, il timbro, il
calore, il movimento. Questo è il primo, straordinario effetto del Corano:
sopratutto su lettori non musulmani, o che non hanno sensibilità religiosa.
Il Corano non obbedisce mai ad una struttura logica: non segna un
percorso continuo e rettilineo. Esso è vagabondo, errabondo, labirintico.
Procede ad onde, a balzi: avanza, si ritrae, si sposta, si contraddice,
ritorna, arretra, accumula; questa struttura così discontinua è il segno,
forse, del suo carattere intenzionalmente sacro. Dio, dice stupendamente,
Maometto, «scaglia la verità»: non vuole farla conoscere o spiegarla, ma la
scaglia come si può scagliare un fulmine, o la erutta e la fa esplodere come un
vulcano. Tutto vi è frattura, intermittenza, abisso, formula apocalittica.
Oppure Dio segue il metodo opposto: si ripete e torna a ripetersi. Quante volte
ci parla dei fiumi del Paradiso. Quante volte ci dice: «Egli è colui che mi ha
creato e mi guida. Egli è colui che mi nutre e mi disseta e quando mi ammalo mi
guarisce. Egli è colui che mi fa morire e poi mi risuscita».
Qualche volta, Il Corano è chiarissimo e - dice
Maometto - porta alla luce ciò che stava celato nella Bibbia, nei Vangeli e
nelle tradizioni apocrife. È facile e semplice. Qualche volta, al contrario, è
oscuro e misterioso: Maometto parla dei «rotoli di pergamena che fate vedere e
in gran parte tenete nascosti». In ogni caso, Il Corano rifiuta di spiegarsi.
Quando Maometto veniva interrogato sul suo significato, rispondeva: «Dio ha
detto qui ciò che ha voluto dire». […]
Il Corano che noi leggiamo e
sopratutto ascoltiamo, non è il vero Corano: quello che, alle origini del
mondo, è stato scritto sulla tavola custodita. La parola di Dio, che è divenuta
"linguaggio e suoni articolati", è stata avvolta da un tenuissimo e
oscurissimo velo. Per scoprire "lo spirito e il significato
profondo", che anima quei suoni e quei segni, dobbiamo risalire al mondo
celeste, verso la tavola custodita. Questa operazione è insieme necessaria e
impossibile: può compierla solo Dio, perché Lui solo sa cogliere nella sua
essenza la "parola puramente interiore" che costituisce il cuore del
libro. Così ogni lettura, che facciamo del Corano, anche quest´ultima che
compiamo aiutati da una buonissima traduzione e da un buonissimo commentario, è
un fallimento. Il Corano resta incomprensibile all´occhio e all´orecchio umani.
La fantasia di Dio
Questo libro incomprensibile
ruota attorno a un Dio egualmente incomprensibile. Dio è unico: "è colui
che basta a sé stesso"; non ha eguali, né secondi, né compagni, né figli,
né associati, né ministri. Non ha alcun bisogno degli uomini, delle loro opere,
delle loro preghiere, e del mondo di animali e piante che ha foggiato. «Se non
li avessi creati - Egli disse - non ne avrei alcun danno: ora che li ho creati,
se non faranno quello che ho prescritto loro, e se non eseguono i miei ordini,
non me ne viene alcun detrimento e, se obbediscono ai miei ordini, non me ne
viene alcuna utilità». «Se volessi - Egli insiste - vi farei sparire, e vi
sostituirei con chi voglio». Ciò che è tipico del mondo islamico è appunto
questa ebbrezza, questa vertigine di unità, dalle quali sono nate meravigliose
pagine teologiche e mistiche. Col suo concetto di Trinità alla quale si è
aggiunta la divinità di Maria, il Cristianesimo è infinitamente più complicato.
Anche il Divino e l´Uno, per noi, sono molteplici.
Siccome è unico, Dio è
onnipresente, onnisciente, onnipossente. Comprende in sé tutte le opposizioni e
le antitesi: il giorno e la notte, il morto e il vivo, il bene e il male.
Quindi sa tutto per natura e per esperienza. «Egli conosce quel che è sulla
terra e quel che è nel mare, non cade foglia senza che egli non voglia, e non
c´è granello nelle tenebre della terra, nulla di umido o di secco che non si è
registrato in un libro». Non c´è segreto che egli non conosca: quelli delle
coscienze, del passato, dell´avvenire e dell´invisibile. Nulla, mai, gli è
nascosto. Sebbene il suo linguaggio preferisca l´immenso, ha uno sguardo
microscopico e molecolare: non gli sfugge il peso di una formica, né quello di
un granello di polvere, o di un granello di senape, o di una tarma, o la
pellicina del nocciolo di un dattero, perché nel minimo si cela il mistero. In
qualsiasi momento del tempo, Egli ci spia: non è mai assente; non si distrae
dall´osservare; e in qualunque situazione ci troviamo, Egli assiste a ciò che
facciamo, diciamo e pensiamo. Se è dappertutto, vive anche nei corpi: a tratti
è visibilmente antropomorfo; e noi abbiamo violenti rapporti fisici con lui,
perché dobbiamo afferrarci tutti alle sue funi. Dunque Dio abita anche il male:
ciò che fa Iblis, l´angelo della Tenebra, esce dalle sue mani.
Quando foggia la terra, la
fantasia di Dio è immensamente creativa e feconda. È la Provvidenza. Rende
stabili le terre, dispone i fiumi per irrigarle, dà loro cime montagnose,
divide i mari con una barriera, manda i venti a portare le voci, fa discendere
la pioggia per gli uomini, gli armenti, il frumento, l´ulivo, le palme, le
viti, i melograni. Tutto è fresco, fertile e luminoso, come nei primi capitoli
della Genesi. Se vuole creare una cosa, Dio pronuncia lo stesso Fiat della
Bibbia. Oltre alla terra, crea altri mondi e altre città, che stanno ai piedi
della smeraldina montagna di Qaf. Crea quelle cose trasparenti e stranissime
che sono le ombre. E, se nella Bibbia, la creazione prende una fine, qui è
continua: Dio può prolungarla e rinnovarla e moltiplicarla, perché - per Lui -
nulla è difficile e definitivo.
Tutto ciò che noi vediamo è una
immagine di Dio. La sterminata regione dei corpi, gli alberi, gli uomini, le
luci, le ombre sono sembianze del suo unico volto. Dio è il chiostro dove si
rifugia il monaco cristiano, il tempio dove vengono venerati gli idoli, il prato
dove brucano le gazzelle, la Ka´ba dove si prostra il pellegrino, le Tavole
dove è stata scritta la legge mosaica, Il Corano ispirato a Maometto. Ma il Dio
islamico non si è incarnato come Gesù. Egli è soltanto entrato nelle forme
create, come l´immagine entra e si riflette dentro lo specchio. Chi contempla
le cose, non contempla la luce divina: la scorge deformata e trasformata, come
la luce che penetra in un filtro di vetro colorato viene tinta dal giallo e dal
rosso. Il nostro mondo è l´ombra rispetto alla persona, la figura specchiata
rispetto all´immagine, il frutto rispetto all´albero. Così il credente, che si
slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra la delusione: giacché
il mondo è un velo che ci nasconde il suo volto. Non sappiamo se ce lo nasconde
perché è un velo troppo spesso: o perché la manifestazione di Dio è così
intensa, la rivelazione così luminosa da accecare i nostri occhi. Sebbene Dio
si manifesti in tutte le cose, Egli è nascosto ed assente e noi seguiamo invano
la sua rivelazione.
Il Corano comincia: «Nel nome di
Dio, il Clemente». Clemente non è un aggettivo, un attributo del nome di Dio,
ma un suo sinonimo. Dio e Clemente significano esattamente la stessa cosa.
Così, se sfogliamo Il Corano, lo scorgiamo donare, senza badare a meriti umani
(che non esistono), o a una qualsivoglia giustizia, ma obbedendo soltanto alla
propria volontà e al proprio capriccio. Come sappiamo, Egli è l´Unico, che
contiene in sé tutte le qualità; e quindi non dobbiamo meravigliarci se, sia pure
in modo indiretto, egli compia il Male. Induce i miscredenti a farlo: "Dio
ha sigillato loro il cuore e l´udito, e sui loro occhi c´è un velo", che
li rende ciechi. Se qualcuno possiede "una malattia del cuore", Dio
non la cura e non la mitiga, ma la accresce. Qualche volta travia, induce in
errore, insidia, tende tranelli, trama inganni: come Zeus, il grande
ingannatore della religione greca.
Travolto da questa forza divina
troppo grande, l´uomo si copre di peccati, di cui è innocente. Eppure, egli ne
è colpevole. Dio vuole appunto questo: un mondo tessuto di peccati e di
peccatori, che gli permetta l´atto divino del Perdono. Ibrahim, un asceta,
girava attorno alla Ka´ba: presso la porta del santuario si fermò e disse: «Mio
Signore, preservami dal peccato, affinché io non mi ribelli al tuo desiderio».
Una voce che proveniva dal cuore della Ka´ba gli sussurrò: «O Ibrahim, mi
chiedi di preservarti dal peccato. Tutti i miei servitori mi chiedono questo.
Ma, se ti preservassi dal peccato, voi sareste privati della mia misericordia.
Se tutti gli uomini fossero innocenti, a chi accorderei la mia grazia?».
“la Repubblica”, 18.10.2010
1 commento:
In questi tempi difficili e procellosi, segnati dallo “scontro fra le civiltà”, una domanda come quella che segue può apparire, se mai altra, ‘politicamente scorretta’ e quasi provocatoria, eppure va posta perché l’oggetto di tale domanda è uno dei libri sacri più letti nel mondo e uno dei testi più affascinanti che si conoscano. Dunque, la domanda è: «Hai mai letto il Corano?». Laddove è da rilevare come le risposte a tanta domanda siano, in genere, di due tipi: o una imbarazzata risposta negativa o la risposta minimalistica e ancor più deplorevole: «Un po’». Sicché, di fronte a tali risposte, occorre spiegare ai primi di quale straordinaria esperienza si siano privati e ai secondi di quanta superficialità sia indizio la loro frettolosa lettura. In realtà, chiunque abbia deciso, spinto da un genuino interesse di natura culturale e munito delle opportune indicazioni bibliografiche, di avvicinarsi a un simile testo non può non aver provato l’emozione, insieme eccitante ed inquietante, della scoperta di un libro unico e poderoso. A ciò si aggiunga la tònica consapevolezza di aver infranto uno dei tabù più tenaci che contraddistinguano la nostra, spesso irrigidita e provinciale, cultura europea, che così scarso spazio concede, nonostante quella arabo-islamica sia una delle sue radici storiche, a questo libro e all’intera cultura di cui esso è espressione.
Per un europeo mediamente cólto il primo ostacolo che si frappone alla comprensione del Corano è la struttura, che però è anche la prima scoperta: 114 capitoli, detti ‘sûre’, di lunghezza ineguale (da 3 a 280 versetti), ciascuna delle quali reca un titolo che richiama qualche particolarità del suo contenuto, si susseguono senza un inizio ed una fine e senza uno svolgimento, benché molti temi sorgano e si allaccino l’uno all’altro, dando vita ad un macrotesto che contiene al suo interno i testi più diversi: profetici, narrativi, sapienziali, politici, normativi, rituali, omiletici, con metamorfosi fulmìnee da un genere all’altro, che sembrano tuttavia alludere ad un disegno misterioso e coerente.
Il Corano, nel passaggio da una ‘sûra’ all’altra, non teme di esibire contraddizioni, ma le riconosce e le dichiara come tali, giacché il libro non è stato dettato da Maometto, ma a Maometto, e al Profeta non spetta misurare la comunicazione divina in base al principio di non-contraddizione. La tradizione attesta infatti che il Corano è un ‘patchwork’ di frammenti scritti su pietre, ossi di animali, foglie, pelli e papiri, successivamente raccolti e riuniti in un unico testo.
Un popolo di animali, di ‘ginn’ (spiriti buoni o cattivi), di angeli (a partire da Gibrîl, l’angelo Gabriele, «nobile inviato di Dio», che ne trasmette i messaggi a Maometto), di esseri quotidiani e sacri, talvolta privi di volto e ridotti solamente ad un gesto (i Sette dormienti, gli ebrei di Medina, Salomone, Alessandro Magno nascosto sotto il volto del Re dalle due corna, i guerrieri caduti «sulla via di Dio», gli Strappanti possenti, i Traenti lievi, i leggeri Nuotanti, l’Ora percuotente), attraversa e sommuove le pagine del Sublime Corano, su cui incombe, radicalmente incommensurabile all’uomo nella sua assoluta verticalità e nel suo altrettanto assoluto dominio, la figura di Allâh, che avvolge il sole nelle tenebre, arrotola i cieli, veste la terra e l’uomo di notte, mette in moto le montagne, fa ribollire i mari e «insinua la notte nel giorno». Dunque, anche solo a considerare la forza evocativa di queste rappresentazioni e volendo tacere su tutto il resto, siamo proprio sicuri che la lettura del Corano sia un’operazione da riservare all’àmbito specialistico degli studi sulla lingua e sulla civiltà araba?
Eros Barone
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