Nato a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre 1921, Andrea
Zanzotto è morto a Conegliano, il 18 ottobre 2011. Quello che segue è il
commosso necrologio di Maurizio Cucchi. (S.L.L.)
Ha lasciato che il mondo lo festeggiasse per i suoi
novant'anni, e poi, così rapidamente, si è congedato per sempre. Andrea
Zanzotto ha scavato in profondità per tutta la vita, è stato una figura di
intellettuale apertissima e capace di spaziare liberamente nelle più diverse
forme del pensiero e dell'arte. Ma certo, è stato soprattutto un grande poeta,
e lo è stato, in effetti, fin da subito, fino dagli esordi dei primi Anni
Cinquanta. Possiamo tranquillamente affermare che la sua opera, nel panorama
della nostra poesia del secondo Novecento, ha un valore di centralità assoluta.
Fino dai suoi esordi, promossi tra l'altro da figure ormai storiche di
primissimo piano, tra le quali Giuseppe Ungaretti, l'intensità verticale della
sua lirica - sempre caratterizzata, peraltro, da forti strappi interni, da
vistose increspature - era stata ampiamente riconosciuta.
Dopo Dietro il
paesaggio (del '51), con un libro come Vocativo
('57), Zanzotto aveva già scritto uno dei capitoli più sicuri della nostra
poesia del secolo scorso, dimostrando, tra l'altro, una virtù che è dei grandi
ma solo dei grandi: quella, cioè, di antivedere, di cogliere in sensibile
anticipo i mutamenti storici. Poiché Zanzotto, considerato spesso scrittore
arduo e poeta del significante, è soprattutto un grande poeta della complessità,
un poeta di pensiero e di contenuti forti, un poeta nettamente immerso nella
condizione del proprio tempo, nei suoi disagi e nelle sue contraddizioni. Cosa
che ha spesso evidenziato nelle dichiarazioni pubbliche, nelle prese di
posizione anche negli ultimi anni. Ed è stato un anticipatore - da straordinario
inventore di linguaggio quale era - di alcune delle principali tendenze della
nostra poesia recente. Come l'uso del dialetto, tanto che con Filò, nel '76 (un poemetto scritto su
commissione di Federico Fellini per il Casanova),
aveva riscoperto in poesia, tra i primissimi, le virtù di una lingua
essenzialmente orale, legata al territorio - nel suo caso il Veneto, essendo
nato e vissuto a Pieve di Soligo (Treviso). E questo suo forte legame con il
territorio, e con quanto nel corso della storia il territorio ha saputo
assorbire e progressivamente, in parte, cedere, è visibilissimo nella sua
opera.
Ma Zanzotto è stato anche il primo a promuovere, in senso
antiframmentistico, la necessità di un progetto ampio in poesia, e dunque di
un'articolazione poematica, realizzata nella sua trilogia, da lui definita con
sublime understatement «pseudo-trilogia», composta dal Galateo in bosco, Fosfeni e
Idioma (tra il '78 e l'86). Nel primo
di questi tre libri, forse uno dei punti più alti della sua ricerca (termine da
lui prevalentemente usato per indicare il proprio lavoro poetico) si e'
cimentato magistralmente con la forma chiusa, scrivendo l'ipersonetto, una
serie concatenata di sonetti, che suonava come un definitivo, personale addio a
una struttura classica, forse la più nobile e amata, poi ripresa in seguito da
numerosi altri poeti delle generazioni più giovani. «Tradizionista a sera /
all'alba novatore», aveva già in precedenza detto ironicamente di se stesso,
nelle IX Ecloghe. E infatti, uno
degli elementi chiave della sua grandezza è stato nella capacità di
confrontarsi sempre con l'amata tradizione della nostra lirica, ma nella piena
apertura al rischio indispensabile del nuovo e dunque alla sperimentazione,
come è evidente in uno dei suoi libri più apprezzati, La Beltà, del '68. Dentro il suo animo era incancellabile il
rimpianto per un perduto tempo della poesia elegiaca, per una quieta «normalità»
semplice del suo amato paesaggio. Ma nella piena, per quanto dolorosa,
consapevolezza che nulla sarebbe potuto ormai tornare com'era stato per secoli.
Così come nulla avrebbe potuto riportare il senso della poesia alla sua
classica dimensione, a quella degli amatissimi Virgilio e Petrarca.
Per chi lo ha conosciuto e lo ha ascoltato nel corso dei
decenni, ha sempre meravigliato la vitalità formidabile e brillante della sua
intelligenza, la scioltezza vivacissima di affabulatore creativo e critico nei
confronti dei vari orrori della contemporaneità. Ho avuto la fortuna di
incontrarlo quarant'anni fa, e l'onore di laurearmi sulla sua poesia. Mi si
perdoni questa nota personale, ma anche la sua geniale semplicità umana è stata
in grado di alimentare chi ha potuto frequentarlo. A novant'anni, il pensiero
poetico di Zanzotto si era conservato ben attivo. Ho qui tra le mani un suo
volumetto di nove poesie, Il vero tema
(Biblioteca Nazionale Marciana/Cento amici del libro), dal quale voglio citare,
per concludere, questi versi: «Non c'è bruscolo di tempo / né di spazio / che
non meriti per sè infiniti poemi / che già in sé non li sia».
“La Stampa”, 19 ottobre 2011
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