Museo Archeologico di Napoli, il cosiddetto Eracle Farnese. copia romana di un originale di Lisippo |
Quando parlavano di eroi, i Greci
li inserivano in una scala discendente: prima venivano gli dèi, poi gli eroi,
infine gli uomini. Li definivano anche “semidei”, proprio per sottolineare
questa loro posizione né divina né umana: a volte erano figli di un dio e di
una donna, altre volte erano semplicemente uomini (guerrieri, fondatori) che
dopo la morte erano assurti al rango di eroi per una certa comunità. Ad essi si
dedicava un culto, come agli dèi, anche se ricorrendo a rituali diversi da
quelli usati per onorare la divinità. Ma qual era il ruolo esercitato dagli
eroi? In genere avevano connessione con una sfera particolare della cultura:
erano legati al combattimento e all’atletica, si occupavano di divinazione e di
medicina, sovraintendevano ai passaggi d’età degli adolescenti; oppure avevano
fondato città, rappresentavano mestieri e professioni, erano capostipiti di
famiglie illustri. Questa era la funzione sociale degli eroi, per dir così.
Ma che genere di personaggi
erano? Si potrebbe pensare che incarnassero un ideale di assoluta perfezione –
erano eroi dei Greci, i creatori della “kalogathía”, l’unione fra bellezza e
bontà: che altro avrebbero potuto essere se non splendidi esempi di virtù e
bellezza? Così in effetti hanno voluto vederli generazioni di studiosi e
cultori dell’Ellade, e così essi continuano ad apparire nella percezione
comune. Eppure già Angelo Brelich, straordinario studioso, aveva dimostrato che
le cose stavano diversamente.
Proviamo a prendere il più
celebre fra gli eroi greci, Eracle. Egli fu certo un civilizzatore, che con le
sue leggendarie fatiche ripulì il mondo dai mostri che ancora lo infestavano:
ma fu anche noto per essere un mangione, un ubriacone, un violentatore di
donne, e infine un pazzo che, nella sua follia, distrusse la propria famiglia.
E Teseo? Anche lui uccisore di
mostri e fondatore di una città come Atene, anche lui però tutt’altro che
irreprensibile: visto che abbandonò su un’isola deserta Arianna, la donna che
tradendo patria e famiglia lo aveva fatto uscire dal labirinto.
Per non parlare di Giasone, il
quale non si fece scrupolo di abbandonare Medea (anche lei sua salvatrice)
semplicemente per contrarre un matrimonio migliore; o di Issione, che tentò di
violentare una dea, Era, o di Tieste che violentò direttamente la propria
figlia.
E questo per quanto riguarda la
virtù. Se si passa al piano della bellezza, poi,si scopre che gli eroi greci
non sono tutti belli come Achille, ma possono essere affetti da gravi difetti
fisici. Ve ne sono di giganteschi, e fin qui niente di strano, ma anche di
nani. Lo stesso Eracle a volte è rappresentato alto “come un dito”. C’erano poi
eroi zoppi, come Edipo, il “piede gonfio” che per giunta aveva i capelli rossi,
un tratto fisico poco apprezzato dai Greci. Altri sono invece caratterizzati
dall’avere membra di animali – come Cecrope, per metà serpente – oppure dal
soffrire di sessualità smodata o di impotenza, così come sono esistiti eroi
balbuzienti, gobbi, senza testa, perfino con il cuore peloso. Troppo spesso
lontani da quei canoni di perfezione a cui spontaneamente vorremmo riferirli,
gli eroi greci costituiscono una vera e propria sfida alla nostra comprensione.
Impossibile negare, infatti, che
a dispetto di un’inarrestabile tendenza alla violenza – e nonostante le proprie
deformità fisiche o morali – gli eroi costituiscono una presenza fondamentale
all’interno della cultura greca. Essi non sono soltanto i meravigliosi
personaggi dei racconti mitologici, ma stavano alle base della pratica
religiosa, e quindi della vita sociale, di moltissime comunità, che attorno al
proprio eroe si raccoglievano per onorarlo e chiederne la protezione. Perché
dunque rappresentarlo a quel modo? Che cosa staranno a “significare” quei
connotati mitici di violenza, prevaricazione, deformità? Per trovare una
risposta a questa domanda occorre evitare di concentrarsi su questo o quel
tratto dell’eroe, per osservare piuttosto il complesso della sua carriera. Che
è marcata sì dall’omicidio o da altre azioni riprovevoli, ma anche da prove di
carattere sovrumano, che egli supera accrescendo così i propri meriti e la
propria gloria - salvo restarne a volte schiacciato, suscitando all’opposto
dolore e compassione. Soprattutto però è sulla conclusione della sua carriera
che deve cadere il nostro sguardo: una fine tragica, attraverso la quale si
realizza l’effettivo passaggio alla condizione “eroica”. Ci accorgeremo così
che personaggi come Eracle o Edipo ci mettono di fronte a un’esperienza ambigua
e complessa, marcata da gloria e dolore, grandezza e miseria: proprio come
avviene in qualsiasi vicenda umana che abbia i caratteri dell’eccezionalità. O
almeno, questo sembrano aver pensato i Greci.
“la Repubblica” 12 dicembre 2013
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