Una bella “voce” dall’Enciclopedia delle Donne, opera di una
agguerrita iranologa e islamologa italiana, utile complemento alle poesie di
Forugh Farrokhzad qui (e altrove) “postate”. (S.L.L.)
«Perché dovrei fermarmi? [...]
È solo la voce che resta...»
Così si esprimeva Forugh
Farrokhzad, forse la più grande poetessa iraniana, di certo la più celebrata e
cara ai suoi compatrioti nell'ultimo secolo.
Nasce in una famiglia della media
borghesia, dopo la scuola dell'obbligo non si diploma neppure, ma si dedica un
poco allo studio della pittura.
Compositrice precoce, si fa
notare a metà anni '50 con la raccolta Prigioniera,
le cui liriche, così come il titolo, sono per lo più autobiografiche: è lei che
si sente in gabbia, tanto che divorzia dal marito (peraltro sposato per amore)
lasciandogli il figlio piccolissimo, onde essere libera di seguire la vocazione
poetica. Con un'operazione unica nell'ambito della letteratura persiana, Forugh
nei suoi versi parla da donna, mettendo in piazza i suoi sentimenti, le sue
aspirazioni, la sua protesta. Nella vita, intreccia legami con vari personaggi,
anche sposati, cosa che le attira spietate critiche dalla società iraniana del
tempo, che lo shah Reza Pahlavi vorrebbe moderna e spregiudicata, ma che, in
realtà, lo è parzialmente e solo a parole.
Nelle successive raccolte la
giovane Forugh dichiara poeticamente di aver «peccato in un abbraccio caldo e
pieno di passione»; dedica una lirica al suo amato che descrive dotato di «un
corpo nudo senza vergogna» da lei nascosto nel viluppo dei suoi seni, mentre si
fa vedere per Tehran in compagnia di un celebre intellettuale già maritato. Per
sfuggire alla pressione sociale ripara per un breve periodo in Europa, dove
riceve premi e riconoscimenti internazionali per un documentario che lei stessa
ha girato in una comunità di lebbrosi, La
casa è nera (1963). Lì incontra il regista Bernardo Bertolucci, che la
rende protagonista di un suo cortometraggio. Rientrata in patria, Forugh continua
a cantare i suoi amori, infrangendo sia la morale comune sia i canoni della
poesia persiana. A volte risulta amara:
«o donna dal cuore trasparente
non cercare fedeltà in un uomo, giammai!
Lui non conosce il significato dell'amore
non rivelargli mai i segreti del tuo cuore.»
Altre volte, canta i rapporti
d'amore, indipendenti dalle carte bollate:
«Non si tratta della fiacca unione di due nomi
né dell'abbraccio fra carte vecchie di un ufficio
si tratta della mia chioma fortunata con i papaveri arsi dal tuo bacio
e della sincerità dei nostri corpi, nel furto
e nello splendore della nostra nudità.»
Forugh prosegue a testa alta,
affermando che poesia e vita sono la stessa cosa; tuttavia, man mano che il
tempo passa, la sua sensualità e il suo anticonformismo sembrano cedere il
passo a solitudine e delusione. Le ultime liriche conservano qualche bagliore
della franchezza erotica di Forugh, ma sono soprattutto il canto di una persona
sola.
«Ecco, sono io
una donna sola
sulla soglia della stagione fredda.»
La paura della morte crepita
nelle ultime liriche, come se Forugh fosse presaga del suo tragico destino: è
proprio in un freddo giorno di febbraio che la sua auto scivola su una lastra
di ghiaccio e lei muore, poco più che trentenne. Ma la sua voce non si spegne:
è la poetessa più tradotta all'estero e la letterata più amata in patria, i
suoi versi sono citati da cineasti famosi e ispirano artiste di aree
confinanti, quali l'Afghanistan. La sua popolarità è tale da venir spesso
menzionata solo con il nome: Forugh.
Forugh Farrokhzad è ora il
simbolo della voglia di vivere e di libertà degli iraniani, un faro della loro
cultura, tanto che la sua tomba è meta di pellegrinaggio di tantissimi giovani
e non, che vi sostano a recitare le sue poesie, fra gli alberi carichi di neve
nei freddi inverni di Tehran.
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