E’ già presente in questo blog un
articolo di Gianni Canova sui primi grandi successi nella tv italiana del
tenente Colombo ( http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2013/12/colombo-e-sua-moglie-il-detective-che.html
). Allo stesso periodo risale l’articolo che segue. All’interno di un paginone
dedicato al successo del personaggio interpretato da Peter Falk Caterina
Selvaggi ne indagava significati nascosti ricorrendo alla psicanalisi e alla
psicologia sociale. I risultati mi paiono alterni. Convincente mi pare il
riferimento alle modalità dello strip, non molto pertinente la lettura del
detective televisivo come “personalità autoritaria”, che riconduce il suo fascino a
quello del “capo” e - addirittura - lo paragona a Hitler. (S.L.L.)
Da sempre il Carnevale celebra i
suoi personaggi attraverso le maschere, e pochi giorni fa si è vista per le
strade di Roma una maschera del tenente Colombo. E’ la legittimazione che
mancava a un “personaggio” televisivo il cui successo, come per i veri
“personaggi”, è legato a un modo d’essere che va bel oltre l’intreccio giallo
in sé: in apparenza Colombo fa di tutto per essere un anti-eroe, a cominciare
dall’aspetto.
Bello non è. Ma il brutto a volte
piace, se ha fascino… Il fascino del “capo” fa i suoi miracoli. Che anche il
nostro Colombo goda di qualche carisma segreto? Non sarebbe poi così strano,
visto che il poliziotto, che alla fine vince sempre, incarna bene la figura del
capo. Per il suo collega, Kojak, altro brutto di successo, non c’è dubbio che
sia un capo: ogni sua frase è una sentenza. Ma Colombo sembra più il brutto
anatroccolo che si scopre cigno alla fine di ogni caso che non uno nato per
comandare.
Strabico, col solito vecchio
impermeabile, sbilenco, curvo, sembra la caricatura dell'italiano di
«Broccolino», secondo in cliché diffuso nel mondo dove noi esportiamo i nostri
migranti più bisognosi, ma non più stupidi. E il tenente Colombo sprizza
intelligenza da ogni piega del suo strapazzatissimo soprabito. Il critico filologo
nota subito che un personaggio così non nasce dal liente: dietro c'è la
tradizione recentissima del film-verità, fucina di anti-eroi. E Peter Falk non
a caso ha lavorato con Cassavetes. Ma la fortuna di Colombo sta in altro:
quella sicurezza ostentata, che accomuna nell'arroganza poliziotto e gangster,
e che costituisce il personaggio Kojak, in Colombo non c'è, e la vittoria finale
viene lentamente, molto lentamente, intravista, pregustata e alla fine
confermata.
Come spettacolo, quello di
Colombo risponde alla stessa logica di uno strip-tease:
si sa già «dove» si arriverà, ma è il «come» che conta. Colombo appare
«vestito» di tutti gli stereotipi del poveraccio, ignorantello, ossequioso,
quasi umile di fronte all'assassino, che è sempre poi uno superiore alla media:
scacchista geniale, affarista di grinta, attore di successo, produttore di vini
preziosi, che Colombo non ha mai assaggiato, e così via. Soprattutto,
l'assassino è già noto al pubblico, e il gioco sta nel vedere come sarà
inchiodato alle sue responsabilità da quel cafoncello che chiede sempre scusa
ma intanto, come il demonio, compare ovunque e all'improvviso, andando a
scovare la vittima fin dentro la tana.
È un match che assegna la
vittoria a chi ha i nervi più saldi, cioè immancabilmente a lui. Colombo mostra
uno stupore quasi genuino di fronte al lusso e al successo dei potenti. È capace
di parlare per un quarto d'ora del suo cane ammalato o dell'invisibile moglie,
per poi andarsene allegramente; ma quando l'assassino lira già un sospiro di
sollievo, Colombo torna indietro, si passa la mano sulla fronte con gesto
desolato, e tira fuori il motivo vero della sua visita. Ed è sempre un dettaglio,
che stringe il cappio attorno alla vittima. Non è mai una prova schiacciante,
ma qualcosa che esclude che il colpevole possa essere un altro. La prova vera
della sua colpevolezza, l'assassino finisce col darla lui stesso, da solo, per
esaurimento psicologico. Colombo lo lavora ai fianchi. Come il gatto col topo.
Il piacere è tutto lì: pregustare la rivelazione di quello che vince sempre.
Del capo.
È tanto sicura la vittoria di
Colombo che l'assassino fa quasi un po' pena fin dall'inizio. In tondo è un
gioco sadico. Ma il capo ha sempre una valenza sadica: è colui cui non si può
sfuggire, alleato del destino. E questa fascinazione del potere stravolge anche
l'estetica…
Il vecchio Freud, che si occupò
del fascino non tanto discreto di Hitler, ne trovò la chiave nella capacità
umana di innamoramento: la psicologia individuale per lui era la struttura
fondante della psicologia sociale. Innamoramento collettivo sublimato. In
mancanza dell’unione fisica, l’amante viene quasi ipnotizzato dall’amato. E lo
trova anche bello.
E’ il caso di Colombo? Noi
apprezzeremmo il bravo tenente perché saremmo in fondo innamorati di lui? Il nostro
Colombo, però, non solo non è bello, ma francamente non fa proprio niente per
piacere alla nostra libido. Forse l'ipotesi di Freud va rovesciata: non è che
Colombo ci sembra un capo perché ci piace, ma ci piace tanto proprio perché si
svela essere un capo. Il piccolo italiano in realtà evoca una condizione
duplice: quella del debole che si scopre forte, quella dell'uomo modesto
socialmente che mette nel sacco gente più importante di lui. Più che oggetto di
bramosie, Colombo è l'esempio perfetto di ciò che prima Horckheimer nel '36 e
poi Fromm nel '41 chiamarono la “personalità autoritaria”, cioè di colui che vive
un doppio ruolo fantastico quello del dominato dai superiori e quello del
dominatore dei sottomessi. Una struttura psicologica bivalente, che si riceve
in famiglia, per cui accade insomma che l'uomo medio, sottomesso al
capoufficio, recuperi poi a casa facendo il padreterno con moglie e figli.
Colombo impersona questa “doppiezza”, questa duplicità di ruoli confusi
all'inizio di ogni caso e poi chiariti? Forse. Per quanto non tutti i leaders
politici ne sembrino consapevoli, oggi il capo che ipnotizza le masse è un po'
fuori moda. Occorrono procedimenti più sofisticati, quasi capziosi per
catturare il pubblico.
“Pagina”, gennaio 1982
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