Nel 1987, mentre procedeva –
destinato al fallimento - il tentativo riformistico di Gorbaciov e mentre
numerose spinte centrifughe percorrevano l’Urss, venne alla ribalta una rivolta
dei Tatari, chiamati anche “Tartari di Crimea”, un gruppo umano relativamente
piccolo, parte di un popolo (i Tartari appunto) i cui confini non solo
geografici sono sempre rimasti nel vago. Il testo che segue fu pubblicato come
box di approfondimento sul “manifesto”. Ho eliminato qualche riferimento
all’attualità del tempo che oggi sarebbe poco comprensibile. (S.L.L.)
Sui giornali italiani le recenti
notizie riguardanti i «Tartari» e loro pacifiche dimostrazioni sulla Piazza
Rossa sono state spesso accompagnate da raffigurazioni dei truculenti
guerrieri, i cavalieri mongoli, dalle «facce di cane» che, attraversate le
pianure eurasiatiche, terrorizzavano gli Europei del 1200. Nell'immaginario
collettivo dell'Occidente i Tartari (cioè i Mongoli) con milioni di Attila e pirati
saraceni, si sono inseriti, a buon titolo, nella categoria dei flagelli di dio,
eclissatori di civiltà, capaci di scatenare terrori irrazionali, crisi
millenariste, isterismi di massa. Papi e re d'Europa alcuni secoli fa impotenti
di fronte all'efficienza e alla modernità delle tecniche militari mongole,
decisero che quei cavalieri piccoli e veloci non potevano essere creature di
dio e, quindi, dovevano necessariamente appartenere all'inferno, come il loro
stesso nome stava indiscutibilmente a dimostrare.
La trovata, di sapore tutto
medievale, che faceva corrispondere i Tartari al tartarus (l'inferno) ebbe notevole successo. Persino Dante in uno
dei versi più enigmatici della Commedia
(ricordate il «pape satan, pape satan aleppe»?) inserì, con mano sicura e
indubbia soddisfazione quel aleppe
che i moderni filologi sostengono che derivi dal mongolo eldeb (al di là, inferno). Come corredo di un'invocazione a Satana
il termine esotico e tartaro doveva sembrare quanto meno appropriato. Non meno
colpito dal suggestivo accostamento fu Federico II, il quale si spense
abbastanza in là da coniare (con dubbio gusto) il gioco di parole «ricacciamo i
Tartari nel tartaro».
Ad ogni modo il nome dell'etnia
doveva essere sicuramente conosciuto in Occidente prima dell'invenzione di
questa battuta così efficace. Quale la sua origine? Una delle ipotesi è che la
lingua degli invasori, una specie di tar-tar
incomprensibile, avesse fornito lo spunto affinché noi (gli invasi)
affibbiassimo ai terribili stranieri il nomignolo di Tartari, con una vera
dimostrazione di sangue freddo e sufficienza anglosassone. Ma tale tesi si
avvicina troppo a quella della genesi del termine greco oi barbaroi (derivato, appunto, dal tar-tar, bar-bar delle lingue straniere) per non essere sospetto.
Meno letteraria l'ipotesi che
esso fosse il nome, forse artatamente deformato, di una tribù di origine turca
o mongola dell'esercito gengiscanide : i Tartari, ma anche i tatari, popoli
distinti. Sia perché esistevano varie tribù con questo nome, sia perché non è
infrequente che la denominazione di una sola tribù, e a volte di un solo
individuo, divenga poi il nome di un intero popolo o federazione tribale,
questa ipotesi è senz'altro la più convincente.
Tale definizione è tutt'ora in
uso in varie lingue europee (inglese, francese, russo e via dicendo) per
identificare il popolo di lingua d'origine turca che ha abitato la Crimea a
partire dagli inizi del '400 in seguito allo sfaldamento dell'Orda d'oro. Da
dove venissero i Tatari (da distinguere anche dai Tartari), quali fossero le
loro precise origini etniche e come si fossero evoluti politicamente e
socialmente fino alla fondazione del canato di Crimea all'inizio del quindicesimo
secolo, è una questione che non ci sogneremo neppure di accennare, tanto essa
risulta intricata anche agli occhi dello specialista.
Diremo invece che nel '300 e nel
'400 i mercanti genovesi e veneziani, ben installati nelle loro basi sul Mar
Nero (altri preferiscono chiamarli colonie) Licassa, Tana e Trebisonda,
commerciavano con essi, collaboravano, a volte litigavano, ma mai li avrebbero
considerati demoni infernali, a dimostrazione di un certo (più volte provato)
illuminismo mercantile, di fronte all'oscurantismo religioso e statale (senza
con ciò negare i meriti di alcuni prodi frati che furono abili esploratori e
diplomatici).
Nel quindicesimo secolo
Giosafatte barbaro scrivendo le sue memorie, più volte accenna ai movimenti
nomadici del nord dei Tartari che i Veneziani della Tana osservavano dalle mura
della città, non senza una certa apprensione, fino al crepuscolo. Il nome,
Tartari, evidentemente era un generico appellativo degli abitanti della steppa,
senza apparenti distinzioni tra un popolo e l'altro.
Oggi ci sembra di essere ancora
alle stesso punto. In Italia sembra si fatichi ad individuare i Tatari (quelli
della Crimea) come un popolo a sé, da distinguere non solo da altri Tartari, ma
anche dall'insieme delle popolazioni turche dell'Asia centrale e caucasica.
Kirghizi, Kazaki, Calmucchi, Turkmeni, Uzbeki ed altre, un tempo facilmente
accumunabili a causa della medesima pratica del nomadismo, di una stessa
religione e dei costumi a volte simili.
I Tatari in seguito acquisirono
tradizioni, lingua e storia proprie, che fecero di questo popolo un insieme
etnico-culturale assolutamente originale e distinto da altre popolazioni
asiatiche. I Tatari furono presto inglobati, nella seconda metà del '500,
all'interno del sistema imperiale ottomano, sia pure con una serie di
concessioni particolari sotto il profilo amministrativo. Fu con Caterina di
Russia, la Grande, che la Crimea passò definitivamente sotto la dominazione
zarista, per poi essere, nel 1800, quel polo di rivalità internazionali di cui
tutti sanno. I Tatari seguirono poi un destino comune ai diversi popoli della
Russia asiatica e, con la rivoluzione d'ottobre, divennero parte del grande
crogiuolo sovietico. Inutile, forse, ripetere che l'adesione alla rivoluzione
di molti popoli sovietici, nella quasi totalità musulmani, non era stata del
tutto entusiasta e che fin dal congresso di Baku non pochi furono i punti
d'attrito tra i giovani bolscevichi e gli anziani mullah, che già avevano contrastato il dominio zarista ed erano
naturalmente diffidenti nei confronti degli Occidentali e dei Russi in
particolare.
Con Stalin anche le minoranze
intellettuali che avevano appoggiato i bolscevichi (ricordiamo in particolare
il destino dei Tatari settentrionali) scomparvero. L'invasione nazista della
Russia dovette sembrare a molti l'occasione propizia per la riconquista di
un'identità etnica che era stata negata loro dalla visione accentratrice,
sovra-nazionale di Stalin. Questi vedeva con diffidenza spinte autonomistiche e
aspirazioni alla riaffermazione di diversità culturali. I Tatari di Crimea
furono tra coloro che collaborarono con le forze di occupazione tedesche. A
guerra finita, la reazione di Stalin fu durissima e, invece di isolare e
colpire i singoli collaborazionisti, una punizione esemplare fu impartita a
tutto il popolo, caricato su tradotte militari e disperso per tutto l'Urss asiatico.
I Tatari di Crimea scomparvero persino dall'enciclopedia sovietica e i
censimenti non li inclusero più. A tutti gli effetti questo popolo aveva
cessato di esistere. Eppure oggi, dopo quarant'anni di diaspora, essi chiedono
che tale unità venga ricostituita e che la loro identità venga riconosciuta.[...]
"il manifesto", 10 agosto 1987
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