Da “l’Unità” un necrologio che mi
pare eccellente. Unica pecca, almeno per me e gli appassionati della serie, la
mancata citazione della Grande Vallata. (S.L.L.)
A
pochi mesi dalla morte di Bette Davis, un altro lutto colpisce la Grande
Hollywood. Barbara Stanwyck (vero nome Ruby Stevens) si è spenta in un ospedale
di Los Angeles in seguito a un infarto: aveva 82 anni, essendo nata a Brooklyn
il 16 luglio del 1907. Interprete di film come Arriva John Doe, Amore
sublime e La fiamma del peccato,
l'attrice era recentemente apparsa nella serie tv Colby.
La locandina della versione francese de "La fiamma del peccato" |
Un leggero strabismo di Venere,
il naso lungo, acconciature spesso atroci: eppure Barbara Stanwyck era un'attrice
sexy. Di una sensualità misteriosa, spiazzante, magari un po' frigida. Quando
la vediamo scendere le scale, le lunghe gambe diafane, un serpentello d'oro
alla caviglia, in una delle prime inquadrature di La fiamma del peccato, sappiamo già che Phyllis Dietrichson
trascinerà all'inferno quel giovane assicuratore col volto di Fred McMurray. E
lei lo seguirà a ruota, in uno dei più bei finali del genere noir. Forse la ricorderete mentre si
avvicina al complice che ha appena ferito, e da cui riceverà il colpo fatale,
per dirgli: «Non ho amato mio marito, non ho amato te, non ho amato nessuno...
ma tienimi».
Senza volerlo (o forse sì),
l'attrice scomparsa ieri diede vita con quel film al prototipo della dark lady hollywoodiana, quasi una
categoria dello spirito, certamente uno degli stereotipi più felici (nonostante
le norme censorie del codice Hays) del cinema americano degli anni Quaranta.
Merito del regista Billy Wilder e dello sceneggiatore Raymond Chandler, che
s'era rifatto, a sua volta, a un romanzo di James Cain; eppure il film non
sarebbe diventato il classico che è (secondo il regista Paul Schrader fu il
primo a rispecchiare le caratteristiche essenziali del genere: «Era conciso, non
lasciava spazi a gesti di riscatto e di eroismo») senza l'apporto di quella ex
ballerina di cabaret che aveva conquistato i cuori americani lavorando «in
ditta» con Frank Capra.
Non era, infatti, bionda e pervers
(l'avrebbero copiata in molte dopo La
fiamma del peccalo, da Lana Tumer a Jane Greer, da Claire Trevor a Lizabeth
Scott) quando si presentò a Capra sul finire degli anni Venti. Nata a Brooklyn il
16 luglio del 1907, Ruby Stevens (era il suo vero nome) veniva da un'infanzia
trascorsa in orfanotrofio in seguito alla morte dei genitori. Però aveva delle
belle gambe e una grinta fuori dal comune: il che le valse, dopo una parentesi
da chorus girl di Ziegfeld e
un'esperienza teatrale a Broadway, l'attenzione del cinema. Chiamata a
Hollywood dopo il successo di Burlesque,
su una coppia di attori, la giovane Stanwyck faticò un po' a farsi accettare:
fino a che, appunto, il già affermato Frank Capra non la volle contro tutto e
tutti per Femmine di lusso.
Era il 1930. Nei panni della
brava ragazza che si innamora di un pittore e ne sopporta di tutti i colori,
quella giovane newyorkese dalla voce splendida, bassa e duttile, dimostrò un
temperamento da diva.
Un anno dopo il sodalizio si ripetè
con La donna del miracolo, seguito a
ruota da Proibito (dove era una
ragazza di provincia che si sacrifica per non pregiudicare la situazione familiare
e pubblica dell'uomo che ama) e da L'amaro
tè del generale Yen. Amori sfortunati sullo schermo e anche nella vita: i
matrimoni con Frank Fay e con Robert Taylor durarono entrambi poco.
Il grande salto avvenne però nel
1937 con Amore sublime di King Vidor, un mélo
a forti tinte, già portato sullo schermo nel 1925 da Henry King, dove l'attrice
ricamo con densa finezza psicologica il personaggio di Stella Dallas,
proletaria che, andata in sposa ad un borghese, si stacca dalla figlia per non
nuocerle. Ha scritto di lei il critico Giulio Cesare Castello: «Il personaggio
Stanwyck - non solo nei suoi aspetti negativi ma anche in quelli positivi, di
energia fisica e morale - è rappresentativo di una società matriarcale, come
quella americana». Il giudizio è pertinente anche se l'attrice, avvertendo
probabilmente i rischi dell'ingabbiamento in ruoli semidrammatici, decise di
buttarsi nella commedia; con ottimi risultati, se si pensa a Lady Eva di Preston Sturges, a Colpo di fulmine di Howard Hawks e
soprattutto ad Arriva John Doe,
ancora di Capra (è l'ambiziosa giornalista che monta il caso dell'aspirante
suicida). Poi, come dicevamo, la «rivelazione bionda» nella Fiamma del peccato, uno di quei film
mitici che tutti conoscono anche senza averlo visto. Lo schema - donna bella e
cinica si serve dell'amante per liberarsi del marito ricco e vecchio - si
ripeterà all'infinito, ma la Phyllis di Barbara Stanwyck ha il pregio di
arrivare per prima: di colpire la fantasia del pubblico appena reduce dalla
seconda guerra mondiale. Un personaggio che riprenderà, con qualche variazione,
in Ballata selvaggia di Hugo
Fregonese e anche nel curioso Lo strano
caso di Martha Ivers di Lewis Milestone, divertendosi nel contempo a
cavalcare nel West insieme a Ronald Reagan (La
regina del Montana) o a immobilizzarsi a letto in attesa di un implacabile
assassino (Il terrore corre sul filo).
Della stessa pasta di attrici
come Bette Davis, Joan Crawford o Katharine Hepbum, la Stanwyck azzeccò anche
il momento del ritiro: dopo Passi nella
notte (1964) che seguiva al coraggioso Anime
sporche dove era una lesbica tenutaria di un bordello, si dedicò alla
televisione, con esiti per lo più accettabili. Chi l'ha visto nei recenti Uccelli di rovo e Colbys avrà riconosciuto, sotto i capelli bianchi cotonati e le
rughe vistose, il piglio di una grande attrice ingiustamente trascurata dagli
Oscar (gliene diedero uno alla carriera, nel 1982) ma decisa a farsi valere.
Anche se in quei «tacchini di programmi» - come li chiamava - le chiedevano
solo di cambiare il vestito ogni settimana per ripetere la stessa identica
scena.
“l’Unità”, 21 gennaio 1990
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