La testimonianza più
drammatica della liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, ce l’ho
davanti casa: la stele che, dove da via Cassia si diparte una
stradina un tempo di campagna e oggi di quartiere dormitorio, elenca
i nomi dei prigionieri politici uccisi a sangue freddo dai nazisti
(affiancati da collaboratori italiani) dopo che si era bloccato il
camion che li trasportava a Nord mentre da Sud entravano in Roma le
truppe alleate. Un a quindicina di anni fa, era appena cominciato il
processo Priebke, uscendo di casa trovai che qualcuno aveva dipinto
sul cippo un’enorme svastica nera. Pochi minuti dopo, attorno al
cippo c’era un capannello di gente che discuteva come fare a
cancellare quell’insulto. Ognuno proponeva gli strumenti del
proprio mestiere: il carrozziere offriva una mola (“ma no, così
rovini il marmo!”), il commerciante del ferramenta proponeva un
solvente… E io, che facevo un altro mestiere, mi domandavo: e io,
che strumenti ho per cancellare quella svastica? Materialmente,
adesso la svastica è scomparsa dalla pietra. Ma non è stata
cancellata dalle nostre menti e dalla nostra cultura. Quelli di noi
che lavorano nella cultura, nella comunicazione, nella scuola devono
cercare nel proprio mestiere gli strumenti per continuare il lavoro
di quel ferramenta e di quel carrozziere e cancellare la svastica
anche dalle coscienze. Finché le svastiche continueranno ad apparire
sui nostri muri, e proprio in vicinanza dei luoghi della resistenza
(dalla Storta a via Tasso) e nelle ricorrenze (il 25 aprile, il
giorno della memoria…), la liberazione di Roma non si potrà dire
compiuta. La storia non finisce lì. D’altronde, quel 4 di giugno
in cui i nazisti lasciarono Roma e gli alleati vi furono accolti in
festa non fu una fine, ma un nuovo inizio. C’è una canzone
partigiana che ho sentito cantare nei Castelli Romani che dice: “Or
che è liberata Roma / il mondo intero insorgerà”. Da un lato, la
canzone sottolinea il ruolo simbolico dell’evento: la liberazione
di Roma, simbolo universale, cambia di segno alla storia del mondo, è
una luce sul futuro. Dall’altro, però, dice che la battaglia
continua, la guerra non è finita. E centinaia di partigiani delle
zone liberate dell’Italia centrale continueranno la lotta nei
gruppi di combattimento a fianco delle forze alleate e di quel che
restava dell’esercito italiano. Il paradosso, naturalmente, è che
forse “il mondo intero insorgerà”, ma che forze potenti –
dalla Chiesa ai militari monarchici – si erano attivate per
impedire che insorgesse Roma. Forse avevano anche delle buone
ragioni; ma forse la scelta di fare di Roma l’oggetto e no il pieno
soggetto della propria liberazione è una delle ragioni per cui,
sette decenni dopo, le svastiche continuano ancora a infestare la
nostra memoria.
"il manifesto", 5 giugno 2014
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