Il soprano Livia Berlendi in 'O mese Mariano, libretto di Di Giacomo dal dramma omonimo |
L'impresa einaudiana
dedicata al Teatro Italiano e diretta da Guido Davico Bonino è
giunta al decimo volume, con questi tre ultimi usciti (La commedia
e il dramma borghese dell'Ottocento, a cura di Siro Ferrante, tre
tomi). L'opera è molto utile, corredata com'è da introduzioni
approfondite e da appendici dedicate all'organizzazione, alla
messinscena, alla recitazione e alle teorie di quel teatro, qui
rappresentato da Giraud, Nota, Bon, Ferrari, Giacomettti, Bersezio,
Torelli; e da Ferravilla, Scarpetta, Verga, Praga, Bertolazzi, Di
Giacomo, Giacosa. E subito, a prima lettura, o rilettura, vien fatto
di pensare quanto poco felice sia stato quel secolo per la nostra
commedia e soprattutto per il dramma.
Parodia del
melodramma
Se dovessimo giudicare
dal piacere che ci possono ancora dare quei testi, ne dovremmo
salvare pochi: Le miserie d'monssù Travet di Bersezio,
Miseria e nobiltà di Scarpetta, El nost Milan e La
povera gent di Bertolazzi; e 'O mese mariano di Di Giacomo
oltre alle Opere del maestro Pastizza di Ferravilla. Sono
tutti scritti in dialetto, vi ricorre puntuale il tema della miseria
popolare, e vi si inaugura un genere che avrà fortuna, la parodia
dell'opera lirica. Vi si nota immancabile la presenza del teatro
francese (le «vera alluvione» di D' Amico) e l'imitazione
goldoniana, sempre presente nello sfondo (vedi Bon e Ferrari). Ma
allora, si chiederà, Ferrari? Giacometti? il gran Verga?
l'autorevole Praga? il felicissimo Giacosa? Temo ohe dovremmo
adattarci a considerarli, gramscianamente, una «produzione
provvisoria » teatrale.
Se nella commedia e nel
dramma avessimo avuto un solo uomo come Rossini o Verdi, oggi queste
domande forse non ce le porremmo. Ma quel «sublime accidente» che è
la comparsa di un grande artista, non si verificò. Certo, anche
nell'Ottocento gli italiani scrivevano un numero incredibilmente alto
di commedie e drammi, e se la quantità bastasse a fondare un teatro
nazionale, il nostro sarebbe da tempo rigoglioso. Purtroppo non
basta, e non a caso gli scrittori lamentavano la mancanza di una
tradizione comica in lingua.
Anche da questo verso,
cioè, emerge soprattutto ciò che la nuova classe dirigente
dell'Italia unita avrebbe potuto fare e non fece, o fece in modo
insufficiente. Da una parte, doveva aprirsi alle altre grandi culture
d'Europa (e qui peraltro si registrano i migliori risultati); e
dall'altro, coinvolgere nel discorso nazionale le sterminate plebi
per le quali l'italiano era e restava una lingua straniera. Nel 1861
pare che gli italiani in grado di parlare l'italiano fossero l'uno
per cento circa: tutti gli altri usavano il dialetto o un'altra
lingua. Di più, tre italiani su quattro erano analfabeta (e
dovettero fare i conti con le truppe austriache, i cui analfabeti non
toccavano neanche il 2%!). Per contro, due soli italiani su cento
potevano far udire, col voto, la loro voce. La nostra restava una
società sostanzialmente agricola, nonostante le “cento città”,
fortemente policentrica e dotata di scarsissima mobilità. Il compito
di fornire una lingua comune a tutto il paese si trovò così nelle
mani di una piccola minoranza.
Si sa come si promosse
d'imperio la lingua franca voluta dall'asse Torino-Firenze, e
fregiata dal nome del gran Manzoni. Strumenti principali di questa
italianizzazione degli italiani furono la scuola elementare
obbligatoria e il servizio militare. Bene o male, una certa « koinè
» finì per formarsi, ma Dio sa quanto goffa, artificiale e
inespressiva, buona tutt'al più per la gestione delle Regie Poste.
Ma di questo non dovevano troppo preoccuparsi gli scrittori di
poesia, di narrativa e di saggistica. Leopardi prima, e poi Manzoni e
lo stesso Verga s'erano ben fatti intendere dai loro lettori. Ma da
quelli che non sapevano leggere? e che avrebbero potuto avere nel
teatro il loro momento di scambio e di sfogo? In siffatte condizioni
tentare una commedia o un dramma in lingua parve una «fisima», e i
più accorti scelsero la via più piana ed economica. Il dialetto era
uno strumento pronto, perfettamente intelligibile e ricco di
possibilità espressive, soprattutto nel registro comico.
Senonché il dialetto
esprime di preferenza contenuti che oggi diremmo pertinenti al
privato, e privilegia i valori del sentimento, quand'anche sferzante,
rissoso o di irrisione. Certo, al Porta e al Belli fu possibile
toccare corde che hanno un'alta rilevanza etica. Ma erano poeti, non
commediografi. Certo, in Bersezio e in Bertolazzi è
indiscutibilmente presente la corda «civile», come diceva il povero
Ciampa del Berretto a sonagli. Ma chi la poteva intendere, allora? Un
solo Beaumarchais servì a tutta la Francia, perché in teoria tutti
i francesi, anche analfabeti, avrebbero potuto capire. Ma da noi
Beaumarchais aveva bisogno della mediazione musicale; e di Bersezio e
di Bertolazzi ce ne sarebbero voluti cento.
Bisognò dunque aspettare
che Pirandello aggirasse l'ostacolo e si decidesse a usare quel suo
spiacevole italiano che è stato sprezzantemente definito « italiese
». Sarà italiese, ma intanto il suo era il primo teatro che tutti
gli italiani (si fa per dire), avrebbero potuto intendere. E
avviandosi su quella strada, altri scrittori di commedie o di drammi
avrebbero potuto andare anche più avanti ciò che Pirandello, nella
sua gran cautela, si guardò bene dal fare: anzi, mascherò
l'innovazione linguistica con un'ideologia conservatrice.
Connotati
regressivi
A riconsiderarlo oggi,
dall'alto della nuova « koinè » che bene o male la radio e la
televisione (meno, la carta stampata) e insomma più d'un secolo
d'unità hanno offerto o imposto al paese (e la si può accettare in
termini di raggiunta omogeneità culturale, o deprecare come passiva
omologazione), è più facile veder chiaro nel nostro Ottocento
teatrale, e capire perché le posizioni più esposte ideologicamente,
e più innovatrici nel linguaggio (Giacosa), scompaiano, mentre
emergono quelle arroccate su posizioni più antiche. Fra l'altro, ci
è più semplice vedere come, per esempio, la commedia
cinematografica «all'italiana » possa assumere connotati oggi
sempre più regressivi e tanto più pericolosi quanto più popolari.
Ma soprattutto, possiamo superare quel pudore e quei sensi di colpa
che fino a non molto tempo fa si provava davanti a una commedia
dialettale. Bisognava dunque che i dialetti fossero in via
d'estinzione, come sono oggi, perché ci sentissimo liberi di seguire
senza rimorsi le nostre inclinazioni, e di apprezzare senza
vergognarci quanto di buono l'antico artigiano teatrale ci lasciò.
Sulla base della nuova parlata nazionale, forse ancora lontana dai
suoi potenziali valori espressivi, soltanto oggi è possibile
proporre monssù Travet ai napoletani e don Felice Sciosciammocca ai
torinesi.
"la Repubblica", 8 febbraio 1980
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