Quello che segue è un brano da Nero su nero, il duro libro che raccoglie, apparentemente alla rinfusa, apologhi, note, cronachette, memorie più o meno lunghe e altre moralità scritte da Sciascia nel decennio 1969-1979, che egli considerava tra i più torbidi della smoderna storia italiana. Il brano si configura come un breve saggio soprattutto centrato, senza rinunciare a qualche apprezzamento sull'opera della scrittrice inglese, sulla morte volontaria di Virginia Woolf, sulla sua meticolosa discrezione. (S.L.L.)
Una
delle cose che più mi fece impressione nell'adolescenza, quando
leggevo di tutto, continuamente, avidamente, ma già con un che di
speculativo, con un'attenzione che propriamente speculava su come le
cose erano scritte, su come sentimenti, pensieri e immagini
restassero per sempre nella rete della scrittura; una delle cose che
più mi impressionò, fu un breve capitolo di Virginia Woolf
pubblicato nell'«Almanacco della Medusa» del 1934: Sulle
lettere di Lord Chesterfield a suo figlio.
Non sapevo nulla di Lord Chesterfield, delle lettere che costui aveva
scritto a suo figlio Filippo; né ancora mi ero imbattuto nei libri
della Woolf che erano già stati pubblicati in Italia. Lessi il
saggio come un racconto. E mi parve bellissimo, come ancora mi pare
quando lo rileggo. Più tardi, lessi della Woolf i due libri
pubblicati nella collana della Medusa, Orlando
e Flush, e proprio nel
1941, mentre giornali e docu-mentari cinematografici offrivano in
continuazione immagini dell'Inghilterra bombardata e dalla città di
Coventry distrutta si coniava l'orrendo neologismo di coventrizzare,
lessi e rilessi la Gita al faro impa-reggiabilmente
tradotta da Giulia Celenza. Reagivo alla brutalità degli
avvenimenti, e alla repugnanza che non potevo esprimere se non in una
cerchia ristretta e fidata, rifugiandomi nella trama sottile e
fragile di quel libro. Era come un omaggio all'Inghilterra
coventrizzata. Solo a guerra finita seppi che in quel 1941 Virginia
Woolf era uscita dalla vita con meticolosa discrezione. Non aveva
resistito alla guerra che quotidianamente dal ciclo si abbatteva
sull'isola, alla paura dell'invasione tedesca, alla preparazione
dello scontro disperato e definitivo che si credeva sarebbe avvenuto.
Mai l'avvenire dei molti è stato affidato a così pochi, diceva
Churchill ai piloti della Raf. Ma Virginia Woolf non se l'era sentita
di continuare ad assistere a quella impari lotta, né aveva fiducia
nella resistenza e vittoria dei così pochi. Era, anzi, per la non
resistenza. Per una sensibilità come la sua, tutto era troppo: non
solo la guerra, i bombardamenti, le case distrutte, l'incombente
sbarco dei tedeschi; ma anche la volontà di resistere, il
patriottismo, i profughi, lo stesso Winston Churchill. I tedeschi la
terrorizzavano; ma c'è da credere che un certo spavento glielo
ispirasse anche Churchill con la sua durezza, la sua caparbietà, la
sua inattaccabile volontà di resistere e vincere. Nelle poche note
di diario del 1941, alla data del 26 gennaio scriveva: «C'è una
pausa, un respiro, nella guerra. Sei notti senza incursioni. Ma
Garvin dice che la battaglia più grossa è per venire, diciamo fra
tre settimane, ed ogni uomo, donna, cane, gatto, parassita persine,
deve cingere le armi, la fede, e così via. È l'ora fredda, questa:
prima che scattino le luci. Qualche bucaneve in giardino. Sì,
pensavo: viviamo senza futuro. Questa è la cosa strana: coi nasi
schiacciati contro una porta chiusa». La retorica del cingere le
armi e la fede, l'annientava quanto la paura dell'invasione tedesca.
In uguale misura, la debolezza e la forza dell'Inghilterra, la
debolezza delle armi e la forza della volontà, la allontanavano ed
estraniavano da ogni cosa.
La
mattina del 28 marzo 1941, una di quelle mattine terse e fredde della
campagna inglese che lei tante volte aveva descritto fino alle quasi
impercettibili sfumature e vibrazioni, Virginia Woolf, dopo avere
scritto tre lettere, uscì di casa silenziosamente. Attraversò i
prati, raggiunse il fiume. Posò il bastone da passeggio sulla riva,
si mise in tasca una grossa pietra: e scese nelle acque per andare
incontro a quella che lei diceva «l'unica esperienza che non
descriverò mai».
Tre
anni prima, reduce dalla guerra di Spagna, George Orwell aveva
scritto: « E finalmente l'Inghilterra: l'Inghilterra meridionale,
forse il più mite paesaggio del mondo. È difficile, quando la si
attraversi, soprattutto mentre ci si riprende dal mal di mare, col
velluto di un treno internazionale sotto la testa, credere che
qualcosa stia accadendo nel mondo... L'Inghilterra della mia
infanzia: la linea ferroviaria scavata nella parete rocciosa e
nascosta dai fiori di campo, i prati profondi dove i grandi cavalli
lustri pascolano meditabondi, i lenti rivi orlati di salici, i verdi
seni degli olmi, le peonie nei giardini dei cottages;
e poi l'immensa desolazione tranquilla della Londra suburbana, le
chiatte sul fiume limaccioso, le strade familiari, i cartelloni che
annunciano gare di cricket e nozze regali, gli uomini in cappello
duro, i colombi di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i policemen
in blu: tutto dormiente del profondo, profondo sonno
dell'Inghilterra, dal quale temo a volte che non ci sveglieremo fino
a quando non ne saremo tratti in sussulto dallo scoppio delle bombe».
Un risveglio cui Virginia Woolf non poteva resistere.
Nero su nero, Einaudi, 1991
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