Due recensioni in una, del celebre
Dialogo galileiano e della
introduzione ad esso di un grande matematico italiano, Federico
Enriques, forse un po' giustapposte. Ma spunti da approfondire in
verità non ne mancano. (S.L.L.)
Galileo Galilei in un celebre ritratto |
Mentre Adelphi ha dato
inizio al «rilancio» del pensiero di Benedetto Croce riproponendone
gli scritti, le edizioni Studio Tesi di Pordenone pubblicano il
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo
(1988), accompagnalo da un vivace saggio di Federico Enriques. Come
ricordò alcuni anni fa Eugenio Garin (Scienza e vita civile nel
Rinascimento italiano, Laterza, 1965), Croce, definendo la
scienza un sistema di pseudo-concetti, arrestò l'intero fluire del
pensiero scientifico nel nostro paese. A Galileo, in particolare,
Croce rifiutò il titolo di filosofo, in quanto nell'ermeneutica
galileiana gli appariva assente quell'elemento teoretico che ogni
vera ermeneutica deve possedere.
Chi conosce l'opera di
Federico Enriques, non fatica a comprendere quanto sia grande il
distacco dall'ottica crociana. Angelo Crescini, nella Prefazione
al volume, rileva che nel panorama delle pubblicazioni di Enriques
l'Introduzione alle parti più importanti dei Massimi
sistemi, scritta nel 1945 a un anno dalla sua morte, riveste una
importanza particolare. In essa, si espone in forma essenziale
l'interpretazione del pensiero scientifico, e filosofico di Galileo,
che Enriques considerava come fase centrale dello sviluppo di una
cultura che, fondendo lo conquiste scientifiche con la loro
fondazione filosofica, gli appariva come la sostanza stessa della
cultura senza aggettivi. Se infatti nel pensiero presocratico vide
l'origine di quell'autentico pensiero scientifico che risorgerà nel
Rinascimento, in Galileo riconobbe colui che raccolse questa preziosa
eredità, la fuse con la concezione razionalistica di derivazione
platonica, calò entrambe dalla loro originaria astrattezza nella
ricerca delle concrete strutture della realtà fisica. E così fondò
quel «metodo sperimentale» che a sua volta diede inizio a un nuovo
orientamento, in ambito filosofico e scientifico.
Sulla sempre risorgente
questione del «platonismo» di Galileo, conviene per il momento
tacere. Meglio rilevare le aperture, in termini di analisi critica
dell'opera galileiana, presenti in Enriques. E' noto che il
positivismo, in Italia, si ammantò di una carica eversiva ignota ad
altre realtà culturali. E' altrettanto noto che il positivismo, da
noi, esaurì presto le sue risorse vitali. Enriques già nel 1934,
aveva osservato che il concetto di «fatto», su cui i positivisti
facevano leva per dare vigore alla scientificità del loro agire, non
poteva essere usato come un argomento preciso. «Anche ciò che a
buon diritto chiamiamo 'fatto' - scriveva - acquista il significato
che gli appartiene solo dalle idee con le quali lo interpretiamo».
Muovendo da questo assunto, Enriques si forgiò un'impostazione
razionalistica su cui si basa quel metodo sperimentale che, per lui
come per Galileo, s'identifica col metodo scientifico in assoluto.
Se accostiamo la tesi di
Enriques con i più recenti dibattiti scientifici, non può sfuggire
il legame che unisce Enriques a Popper. Da Popper abbiamo appreso
l'impossibilità dell'esistenza dei «puri dati di fatto», e quindi
degli asserti protocollari che dovrebbero esprimerli. La Theory
ladeness di Popper indica l'immancabile presenza della teoria in
ogni osservazione, anche la più elementare. Dal confronto critico
con il positivismo o dall'esegesi galileiana, Enriques è giunto a
conclusioni pressoché analoghe, che la cultura filosofica italiana
ha a lungo ignorate.
Rileggere Galileo con
l'ottica di Enriques significa non solo addentrarsi in uno dei più
esemplari testi scientifici di tutti i tempi, ma anche misurarsi con
una branca importante della filosofia contemporanea. La
matematizzazione del pensiero a opera di Galileo, ha indotto numerosi
filosofi a dimostrare con matematico rigore l'assoluta autonomia dei
linguaggi formali. Enriques respinse tale via analitica. Preferì
rimanere in ambito filosofico, per non discostarsi troppo da una
fedeltà al testo che sentiva doverosa. Con Crescini si può tuttavia
condividere l'idea che, se anche Enriques si fosse dedicato alla
ricerca in senso logico-formalistico, data la sua robusta
preparazione scientifica, avrebbe raggiunto sicuri risultati.
Pensato fin dai primi
anni del soggiorno a Padova come un condensato di riflessioni in
campo filosofico, astronomico e geometrico, il Dialogo venne
assumendo il carattere di un manifesto del sapere nuovo, in quanto
rinnovato nei concetti o incline a formare un diverso equilibrio tra
scienza e politica. Nel 1630 il lavoro era concluso. Galileo portò
il manoscritto a Roma, por consegnarlo a Federico Cesi, che si era
offerto di pubblicarlo sotto gli auspici dell'Accademia dei Lincei, e
per mostrarlo, con la cautela diplomatica del caso, agli ambienti
eruditi. Tale prudenza è rivelatrice del fiuto politico di Galileo.
Egli voleva far pesare il titolo di «Filosofo e Matematico del Gran
Duca di Toscana», nonché il credito goduto presso le istituzioni
scientifiche dei Gesuiti e la protezione accordatagli dal principe
Cesi, per allontanare la minaccia di un procedimento contro di lui da
parte del S.Uffizio.
Galileo sapeva che papa
Urbano VIII, malgrado si atteggiasse a letterato, non era per niente
disposto a tollerare la messa in discussione di un dogma biblico a
opera di un uomo di scienza, precedentemente condannato. Per
ammorbidirne l'atteggiamento, Galileo si servì dell'ambasciatore a
Roma della famiglia dei Medici, Francesco Niccolini, e di sua moglie,
Caterina Riccardi, parente del maestro del Sacro Palazzo. La
complessa trama diplomatica si risolse con un compromesso. Galileo
accettò di presentare in modo stilisticamente «pacato» l'inizio e
la fine dello quattro giornate in cui il Dialogo è diviso. Inoltre,
accettò che la posizione copernicana sul moto della
terra figurasse nel libro
come una teoria, non come una verità assoluta. E nel caso in cui
l'ipotesi formulata si fosse mostrata valida contro le resistenze
peripatetiche, si riteneva che essa fosse comunque subordinata alla
testimonianza delle Sacre Scritture.
Il Dialogo fu
edito a Firenze nel 1632. Malgrado ogni caute la e nonostante i
compromessi subiti, Galileo fu processato e condannato. E' noto che
una delle cause dell'accanimento ecclesiastico contro di lui fu
l'uso del volgare da parte dello scienziato, che desiderava allargare
quanto più possibile il confine sociali della fruizione' della
scienza. Vorrei pertanto consigliare di leggere (o rileggere) il
Dialogo con l'ausilio di Galileo Galilei: la prosa.
Uscita nel 1911 a cura di Isidoro Del Lungo e Antonio Favaro,
l'antologia è stata riproposta dalla Casa editrice Sansoni nel 1957
e di nuovo lo scorso anno, con una Presentazione di Cesare
Luporini.
Nel saggio introduttivo è
ripercorsa la fortuna di Galileo come scrittore: dalle prime, acute
osservazioni di Raffaello Spongano, all'ardito argomento di Leonardo
Olschki, secondo cui il bon snaturale del Ruzante è parente
dell'antisecentismo di Galileo.
“il manifesto”, 23
giugno 1989
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