7.7.14

Federico Enriques e i Massimi Sistemi (Stefano De Rosa)

Due recensioni in una, del celebre Dialogo galileiano e della introduzione ad esso di un grande matematico italiano, Federico Enriques, forse un po' giustapposte. Ma spunti da approfondire in verità non ne mancano. (S.L.L.)
Galileo Galilei in un celebre ritratto
Mentre Adelphi ha dato inizio al «rilancio» del pensiero di Benedetto Croce riproponendone gli scritti, le edizioni Studio Tesi di Pordenone pubblicano il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo (1988), accompagnalo da un vivace saggio di Federico Enriques. Come ricordò alcuni anni fa Eugenio Garin (Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Laterza, 1965), Croce, definendo la scienza un sistema di pseudo-concetti, arrestò l'intero fluire del pensiero scientifico nel nostro paese. A Galileo, in particolare, Croce rifiutò il titolo di filosofo, in quanto nell'ermeneutica galileiana gli appariva assente quell'elemento teoretico che ogni vera ermeneutica deve possedere.
Chi conosce l'opera di Federico Enriques, non fatica a comprendere quanto sia grande il distacco dall'ottica crociana. Angelo Crescini, nella Prefazione al volume, rileva che nel panorama delle pubblicazioni di Enriques l'Introduzione alle parti più importanti dei Massimi sistemi, scritta nel 1945 a un anno dalla sua morte, riveste una importanza particolare. In essa, si espone in forma essenziale l'interpretazione del pensiero scientifico, e filosofico di Galileo, che Enriques considerava come fase centrale dello sviluppo di una cultura che, fondendo lo conquiste scientifiche con la loro fondazione filosofica, gli appariva come la sostanza stessa della cultura senza aggettivi. Se infatti nel pensiero presocratico vide l'origine di quell'autentico pensiero scientifico che risorgerà nel Rinascimento, in Galileo riconobbe colui che raccolse questa preziosa eredità, la fuse con la concezione razionalistica di derivazione platonica, calò entrambe dalla loro originaria astrattezza nella ricerca delle concrete strutture della realtà fisica. E così fondò quel «metodo sperimentale» che a sua volta diede inizio a un nuovo orientamento, in ambito filosofico e scientifico.
Sulla sempre risorgente questione del «platonismo» di Galileo, conviene per il momento tacere. Meglio rilevare le aperture, in termini di analisi critica dell'opera galileiana, presenti in Enriques. E' noto che il positivismo, in Italia, si ammantò di una carica eversiva ignota ad altre realtà culturali. E' altrettanto noto che il positivismo, da noi, esaurì presto le sue risorse vitali. Enriques già nel 1934, aveva osservato che il concetto di «fatto», su cui i positivisti facevano leva per dare vigore alla scientificità del loro agire, non poteva essere usato come un argomento preciso. «Anche ciò che a buon diritto chiamiamo 'fatto' - scriveva - acquista il significato che gli appartiene solo dalle idee con le quali lo interpretiamo». Muovendo da questo assunto, Enriques si forgiò un'impostazione razionalistica su cui si basa quel metodo sperimentale che, per lui come per Galileo, s'identifica col metodo scientifico in assoluto.
Se accostiamo la tesi di Enriques con i più recenti dibattiti scientifici, non può sfuggire il legame che unisce Enriques a Popper. Da Popper abbiamo appreso l'impossibilità dell'esistenza dei «puri dati di fatto», e quindi degli asserti protocollari che dovrebbero esprimerli. La Theory ladeness di Popper indica l'immancabile presenza della teoria in ogni osservazione, anche la più elementare. Dal confronto critico con il positivismo o dall'esegesi galileiana, Enriques è giunto a conclusioni pressoché analoghe, che la cultura filosofica italiana ha a lungo ignorate.
Rileggere Galileo con l'ottica di Enriques significa non solo addentrarsi in uno dei più esemplari testi scientifici di tutti i tempi, ma anche misurarsi con una branca importante della filosofia contemporanea. La matematizzazione del pensiero a opera di Galileo, ha indotto numerosi filosofi a dimostrare con matematico rigore l'assoluta autonomia dei linguaggi formali. Enriques respinse tale via analitica. Preferì rimanere in ambito filosofico, per non discostarsi troppo da una fedeltà al testo che sentiva doverosa. Con Crescini si può tuttavia condividere l'idea che, se anche Enriques si fosse dedicato alla ricerca in senso logico-formalistico, data la sua robusta preparazione scientifica, avrebbe raggiunto sicuri risultati.
Pensato fin dai primi anni del soggiorno a Padova come un condensato di riflessioni in campo filosofico, astronomico e geometrico, il Dialogo venne assumendo il carattere di un manifesto del sapere nuovo, in quanto rinnovato nei concetti o incline a formare un diverso equilibrio tra scienza e politica. Nel 1630 il lavoro era concluso. Galileo portò il manoscritto a Roma, por consegnarlo a Federico Cesi, che si era offerto di pubblicarlo sotto gli auspici dell'Accademia dei Lincei, e per mostrarlo, con la cautela diplomatica del caso, agli ambienti eruditi. Tale prudenza è rivelatrice del fiuto politico di Galileo. Egli voleva far pesare il titolo di «Filosofo e Matematico del Gran Duca di Toscana», nonché il credito goduto presso le istituzioni scientifiche dei Gesuiti e la protezione accordatagli dal principe Cesi, per allontanare la minaccia di un procedimento contro di lui da parte del S.Uffizio.
Galileo sapeva che papa Urbano VIII, malgrado si atteggiasse a letterato, non era per niente disposto a tollerare la messa in discussione di un dogma biblico a opera di un uomo di scienza, precedentemente condannato. Per ammorbidirne l'atteggiamento, Galileo si servì dell'ambasciatore a Roma della famiglia dei Medici, Francesco Niccolini, e di sua moglie, Caterina Riccardi, parente del maestro del Sacro Palazzo. La complessa trama diplomatica si risolse con un compromesso. Galileo accettò di presentare in modo stilisticamente «pacato» l'inizio e la fine dello quattro giornate in cui il Dialogo è diviso. Inoltre, accettò che la posizione copernicana sul moto della
terra figurasse nel libro come una teoria, non come una verità assoluta. E nel caso in cui l'ipotesi formulata si fosse mostrata valida contro le resistenze peripatetiche, si riteneva che essa fosse comunque subordinata alla testimonianza delle Sacre Scritture.
Il Dialogo fu edito a Firenze nel 1632. Malgrado ogni caute la e nonostante i compromessi subiti, Galileo fu processato e condannato. E' noto che una delle cause dell'accanimento ecclesiastico contro di lui fu l'uso del volgare da parte dello scienziato, che desiderava allargare quanto più possibile il confine sociali della fruizione' della scienza. Vorrei pertanto consigliare di leggere (o rileggere) il Dialogo con l'ausilio di Galileo Galilei: la prosa. Uscita nel 1911 a cura di Isidoro Del Lungo e Antonio Favaro, l'antologia è stata riproposta dalla Casa editrice Sansoni nel 1957 e di nuovo lo scorso anno, con una Presentazione di Cesare Luporini.
Nel saggio introduttivo è ripercorsa la fortuna di Galileo come scrittore: dalle prime, acute osservazioni di Raffaello Spongano, all'ardito argomento di Leonardo Olschki, secondo cui il bon snaturale del Ruzante è parente dell'antisecentismo di Galileo.


“il manifesto”, 23 giugno 1989

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