Perugia, La porta del Palazzo dei Priori, sede del Comune |
Il ballottaggio delle
comunali di Perugia e il “ribaltone” che ne è derivato sono
stati da subito oggetto di esagerazioni mediatiche. Si è così letta
e ascoltata la tiritera di un potere “rosso” che durava,
ininterrotto e impermeabile, da settant'anni finalmente abbattuto; e
non ci è stata risparmiata neanche la sciatta similitudine con la
caduta del muro di Berlino. Qualcuno poi si è premurato di
rammentare agli smemorati che questo potere aveva conosciuto una
interruzione tra il 1964 e il 1970, anni della alleanza tra Dc e Psi
chiamata “centro-sinistra” che teneva all'opposizione il forte
partito comunista. C'è di più: in questa città territorialmente
estesa e in molti sensi policentrica non c'è mai stato né poteva
esserci il potere occhiuto e totalizzante di cui si è favoleggiato:
l'amministrazione del Comune è sempre stata frutto di compromessi
tra ceti, gruppi sociali, centri di potere.
In verità a Perugia,
nonostante il grande seguito e la forza elettorale comunista,
funzionò per tutto il periodo della cosiddetta Prima Repubblica una
conventio ad excludendum per
cui il Pci, pur avendo un peso determinante nella pubblica
amministrazione, non esprimeva il sindaco. Quel ruolo spettava a un
socialista, più spesso proveniente dalle professioni liberali che
dal funzionariato politico, generalmente espressione della borghesia
urbana di tradizione laico-massonica, ma in grado di garantire anche
la parte di tradizione papalina, moderata o conservatrice. Tra i due
settori dei ceti dominanti, un mondo piuttosto esclusivo, non c'erano
mai state “grandi muraglie”. La Dc, dal canto suo, anche se
all'opposizione, non era affatto esclusa dal potere locale, grazie
al sostegno del governo nazionale: le banche, le due università, i
consorzi agrari, il provveditorato agli studi per esempio erano nella
sua orbita di influenza. Questo sistema trovò l'apogeo negli anni
Settanta, quando – sulla spinta delle intese romane – fiorirono
anche a Perugia accordi programmatici e lottizzazioni degli
incarichi.
Va
aggiunto che l'esclusione del Pci dal governo cittadino negli anni
Sessanta non era stata conseguenza meccanica di scelte nazionali.
Fino ad allora la base sociale del Pci, il mondo della mezzadria, il
proletariato e il popolino urbano, si era contentato delle grandi
opzioni ideali e di una amministrazione attenta ai bisogni delle
classi subalterne, ma negli anni del “boom economico” questo non
bastava più. Insomma c'era stato un ritardo nel leggere le
trasformazioni del neocapitalismo, la scomposizione-ricomposizione
tra classi e ceti, il mutato rapporto tra città e campagna, il ruolo
che veniva assumendo la città nella costituenda Regione.
La
presa di coscienza fu contestuale ai cambiamenti nel gruppo dirigente
e nel quadro attivo del partito. Non mancavano in esso figure che
erano diretta espressione del blocco sociale di riferimento, ma
avevano ruolo e peso soprattutto alcuni “trasfughi” della
borghesia urbana, politicizzatisi a sinistra nel corso della
Resistenza o nell'immediato dopoguerra; sul finire degli anni
Sessanta, sulla spinta dei movimenti sociali, di operai e studenti
soprattutto, funzionò uno dei tipici “rinnovamenti nella
continuità” del Pci togliattiano. Così nelle liste comunali e
regionali del 1970 come negli organismi del partito e della Cgil
venivano valorizzate, seppure con cautela, persone che venivano dalla
fabbrica o dal mondo giovanile, mentre cresceva, seppure lentamente,
l'influenza nelle sezioni dei gruppi che la disgregazione del mondo
contadino produceva: non solo i famosi “metalmezzadri” ma anche i
“mezzadri piccoli imprenditori”. Di sicuro questo favorì la
riconquista del Comune. Ma più ancora pesò in quell'occasione e
successivamente il rinnovamento programmatico. Mandarini ha ragione,
quando sul “manifesto” riconosce a quella sinistra il merito di
aver elaborato un'idea della città nella nuova Regione: grandi
eventi da una parte, diffusione di servizi e centri di aggregazione
nelle periferie e nelle frazioni furono due facce di quell'idea. Ma
nella costruzione del consenso ancora di più pesò la scelta
partecipativa: i comitati di quartieri prima, e poi la loro
istituzionalizzazione nelle Circoscrizioni ne furono l'asse, lo
strumento attraverso cui gruppi di cittadini riuscivano ad incidere
sulle scelte che riguardavano la loro vita. E' vero che la selezione
dei dirigenti nel territorio seguiva il criterio della cooptazione
paternalistica tipico del Pci, come è vero che le reti partecipative
tendevano a degenerare in reti clientelari, ma i passaggi elettorali
come la pratica delle periodiche assemblee rendevano in ogni caso
inevitabile il confronto del vertice con la base e il coinvolgimento
della base nelle scelte.
E' in
questa fase (anni Settanta – Ottanta) che la chiusa (e talora
ottusa) borghesia proprietaria e professionale subisce alcuni scacchi
vissuti come umiliazioni. Da una parte la nascita della Regione, lo
sviluppo economico, urbanistico e turistico della città, l'ampliarsi
delle Università determinano un allargamento della classe dirigente
ristretta: grandi professionisti, professori universitari, banchieri,
alti burocrati, grandi imprenditori non possono essere più
espressione di una chiusa oligarchia impregnata di peruginità, ma i
ranghi devono essere rafforzati con persone che vengono da fuori
delle antiche mura, dalle frazioni, da altri centri della regione, da
fuori regione. I signori della vecchia Perugia prima resistono, poi
accettano e integrano i nuovi, anche nelle organizzazioni
“riservate”. Mal sopportano invece che al Palazzo dei Priori
contino sempre di più persone che vengono dalle periferie e dalle
frazioni e che l'organizzazione “circoscrizionale” faccia spesso
prevalere le esigenze del contado.
La
crisi dell'89 travolge il vecchio sistema politico: lo scioglimento
del Pci e la legge sull'elezione diretta del sindaco che spoglia di
molti poteri i Consigli Comunali a vantaggio dell'esecutivo cambiano
il quadro. Nel 1995 il Pds non impone un proprio candidato sindaco
alla nascente coalizione del centro-sinistra bipolare: sceglie un
professore universitario cattolico di sinistra vicino alla Curia,
visto che l'area socialista, screditata da Tangentopoli, si è
dissolta; mutatis mutandis Maddoli
ha la stessa funzione di
rassicurazione che avevano fino ad allora i sindaci socialisti. Solo
con Locchi, da sempre legato alle frazioni, si elegge un sindaco
postcomunista. Dai Ponti proviene il suo successore Boccali, il cui
impegno nel Pci risale alla prima giovinezza, agli anni 80, nel
movimento studentesco e nella Fgci. La sua sindacatura completa il
processo di ascesa di un ceto politico che proviene dal mondo
mezzadrile e operaio, ma che è ormai del tutto snaturato. Non so se
Locchi e Boccali si possano considerare eredi del Pci; di certo hanno
beneficiato di quella eredità, ma, insieme a tutto il resto del
gruppo dirigente, l'hanno dilapidata.
Come
giornale ci è spesso accaduto di denunciare le magagne del sistema
di potere impiantato a Perugia del Pds-Ds-Pd che aveva il suo cuore
pulsante nei costruttori e non abbiamo mai taciuto il limite di
fondo: la mancanza di una idea della città, mancanza che obbligava a
galleggiare su questa o su quella ipotesi di grande opera o trovata
propagandistica; forse non abbiamo riflettuto abbastanza sulla crisi
verticale della partecipazione. L'ideologia dell'uomo solo al
comando, la concezione mediatica del consenso, hanno fatto ritenere
prima ai diessini e poi ai piddini che l'abolizione legislativa delle
circoscrizioni non fosse una iattura, quanto un'occasione. Piuttosto
che pensare a come sostituirle efficacemente, hanno pensato di fare a
meno del rapporto con la base elettorale e affidato la cura dei
rapporti con periferie e frazioni a consiglieri comunali più o meno
formalmente delegati a gestire la rete clientelare. Il clientelismo,
peraltro, in tempi di vacche magre per le finanze locali, ha
funzionato sempre meno e il malcontento è diventato generale, anche
e soprattutto nelle zone rosse.
Da
mesi prima dalle fatidiche elezioni si parlava del “modello Parma”,
si diceva: se Boccali non ce la fa al primo turno, rischia
moltissimo. I più pensavano che al ballottaggio non arrivasse la
destra ancora legata Berlusconi, ma il candidato grillino. Non è
andata così. Nonostante il ridicolo l'11 per cento di Forza Italia e
poco più del 20% delle liste coalizzate, la destra, senza alcun
merito proprio e solo per i demeriti altrui, ha fatto tombola
puntando su un candidato giovane, bene educato e ai più sconosciuto.
Romizi è andato con appena 22 mila voti (il 26 %) al secondo turno,
nel quale – nonostante il forte calo dei votanti – è passato a
35 mila voti (e al 58 %). Per vincere si è giovato anche
dell'apporto di alcune liste civiche come quelle di Barelli e quella
di Dramane, utilissime a coprirlo a sinistra, ma anche di un travaso
diretto da Boccali che passava da 39 mila a 25 mila voti. Si racconta
di giovani che nelle periferie e nel contado, ai Ponti per esempio,
persuadevano genitori e nonni a un voto di liberazione e di
rinnovamento.
Così
da Wladimiro Boccali si passa ad Andrea Romizi.
A
volte anche i nomi e cognomi sono eloquenti; e alle famiglie
dell'antica oligarchia di cui il nuovo sindaco è rampollo non è
sembrato vero. Ricacciati i Wladimiri nelle campagne donde sono
venuti sognano il ritorno della egemonia dei ceti professionali e
proprietari sull'intero territorio cittadino. La nomina della Giunta
con dentro tanta “società civile” dà conferma di siffatti
progetti. Non ci sono grandi cambiamenti da fare nella politica: le
scelte delle ultime amministrazioni cosiddette di sinistra avevano
spesso un segno di destra (penso all'esternalizzazione di attività
fondamentali, o all'affidamento ad associazioni private di compiti di
assistenza). Un'ipotesi egemonica può peraltro trovare il sostegno
delle organizzazioni cattoliche, felici di gestire il passaggio
dall'assistenza alla carità, e l'appoggio delle corporazioni, dai
medici agli architetti, dai banchieri ai commercianti, per non dire
dei notai. In prima linea gli avvocati, incluso quel nocciolo duro di
penalisti, la cui potenza è aumentata in parallelo con la criminale
economia della droga: difendere e far liberare trafficanti e
spacciatori può essere un grande affare.
Ce la
faranno? Riuscirà questo progetto di durevole egemonia o Perugia
diventerà un Comune contendibile a ogni elezione? Le ambizioni sono
alte, ma gli ostacoli molti. In ogni caso il blocco della sinistra è
ormai scomposto e disfatto e una sua ricostruzione richiede, oltre
che tempo, una capacità di analisi e di ideazione che al momento non
si vede. Potrebbe tutt'al più risorgere un Pd perugino più leggero
e meno radicato, come coalizione di interessi distinta e diversa da
quella di Romizi, ma con scarsi rapporti con la sinistra, con i suoi
soggetti sociali, storici o potenziali, con i suoi valori.
P.S.
Aggiungo, a mo' di vaticinio, una battutaccia sulla cementificazione.
Forse Romizi guarderà a gruppi di costruttori diversi che in
passato, ingegneri o architetti piuttosto che ex muratori, ma nella
sostanza non cambierà nulla. Nonostante Barelli.
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