Ignazio Buttitta recita i suoi versi a Roccamena |
Ne viene fuori qualche
scintilla, ma anche qualche acquisizione critica significativa. Il
testo pubblicato originariamente sul settimanale “Tempo”, entrò
nella raccolta degli Scritti corsari. (S.L.L.)
Pier Paolo Pasolini balla in una Casa del Popolo |
Ormai da molto tempo
andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia
e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse
un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo di fare da
una estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente
definibile. Quando il dolore di vedermi circondato da una gente che
non riconoscevo più — da una gioventù resa infelice, nevrotica,
afasica, ottusa e presuntuosa dalle mille lire di più che il
benessere gli aveva improvvisamente infilato in saccoccia — ecco
che è arrivata l'austerità, o la povertà obbligatoria. In quanto
provvedimento governativo io considero tale austerità addirittura
incostituzionale, e m'indigno furiosamente al pensiero di quanto essa
sia «solidale» con l'Anno Santo. Ma, come «segno premonitore» del
ritorno di una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico
povertà, non miseria. Son pronto a qualsiasi sacrificio personale,
naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente
torni l'antico modo di sorridere; l'antico rispetto per gli altri che
era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria
cultura « povera » insegnava a essere. Allora si potrà forse
ricominciare tutto da capo... Sto farneticando, lo so. Certo, queste
restrizioni economiche, che hanno l'aria di fissarsi in un tenore di
vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, possono
significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da
disperati pensare che la storia dell'umanità fosse ormai la storia
dell'industrializzazione totale e del benessere, cioè un'«altra
storia», in cui non avessero più senso né il modo di essere del
popolo né la ragione del- marxismo. Forse il culmine di questa
storia aberrante — benché non osassimo sperarlo — l'avevamo già
raggiunto, e ora comincia la parabola discendente. Gli uomini
dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo
artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di
frenetica incoscienza. Certo (come leggo in Piovene), il recupero di
tale passato sarà per molto tempo un aborto : una mescolanza
infelice tra le nuove comodità e le antiche miserie. Ma ben venga
anche questo mondo confuso e caotico, questo «declassamento». Tutto
è meglio che il tipo di vita che la società stava vertiginosamente
guadagnando.
Improvvisamente in questa
situazione, dopo quasi trent'anni, ho ricominciato a scrivere in
dialetto friulano. Forse non continuerò. I pochi versi che ho
scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un
sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo
automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il
romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E
questo fino a trent'anni d'età e più. Non si trattava solo di
povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il
dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così
lontane da parere astratte. L'italianizzazione dell'Italia pareva
doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e
popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con
la lingua pilota aziendale, com'è poi avvenuto). Fra le altre
tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente,
sensualmente) in questi ultimi anni, c'è stata anche la tragedia
della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della
perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare,
eccentrica, concreta: mai centralistica; mai «del potere»).
Questo svuotamento del
dialetto, insieme alla cultura particolare che esso esprimeva —
svuotamento dovuto all'acculturazione del nuovo potere della società
consumistica, il potere più centralizzatore e quindi più
sostanzialmente fascista che la storia ricordi — è esplicitamente
il tema di una poesia di un poeta dialettale, intitolata appunto
Lingua e dialettu (il poeta è Ignazio Buttitta, il dialetto è
il siciliano). Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco:
può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è
sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il
passaporto, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco.
Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime
attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e
esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà
e miseria. Cultura e condizione economica sono perfettamente
coincidenti. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale)
«conosce» realisticamente solo la propria condizione economica, e
attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l'infinita
complessità dell'esistere. Solo quando qualcosa di estraneo si
insinua in tale condizione economica (ciò che oggi avviene quasi
sempre a causa della possibilità di un confronto continuo con una
condizione economica totalmente diversa) allora quella cultura è in
crisi. È su questa crisi che, nel mondo contadino, si fonda
storicamente la «presa di coscienza» di classe (su cui del resto
incombe eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una
crisi di giudizio sul proprio modo di vita, uno stingimento della
certezza dei propri valori, che può giungere fino all'abiura
(cosa avvenuta appunto in Sicilia in questi ultimi anni a causa
dell'emigrazione in massa dei giovani in Germania e nell'Italia del
Nord). Simbolo di questa «deviazione» brutale e niente affatto
rivoluzionaria della propria tradizione culturale, è
l'annichilimento e l'umiliazione del dialetto, che pur restando
intatto — statisticamente parlato dallo stesso numero di persone —
non è più un modo di essere e un valore. La ghitarra del dialetto
perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari che
però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono
regalare. Chi lo parla è come un uccello che canta in gabbia. Il
dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno
succhiato, e ora ci sputano sopra (l'abiura!). Ciò che non può
essere (ancora) rubato è il corpo, con le sue corde vocali, la voce,
la pronuncia, la mimica — che restano quelle di sempre. Tuttavia si
tratta di una pura e semplice sopravvivenza. Benché ancora in
possesso di questo organo misterioso « coi suoi lampi negli occhi »
che è il corpo, « siamo poveri e orfani lo stesso ».
Questa poesia, così
perfettamente tragica, ha un'equivalente in un'altra poesia dal
titolo U rancuri. Anche qui la conclusione (espressivamente
perfetta) non lascia adito a speranza alcuna. Il poeta dialettale e
popolare (in senso gramsciano) raccoglie i sentimenti dei poveri, il
loro «rancore», la loro rabbia, la loro esplosione di odio : si fa,
insomma, loro interprete e loro tramite, ma lui, il poeta, è un
borghese. Un borghese che si gode il suo stato di privilegio; che
vuole la pace nella sua casa per dimenticare la guerra nelle case
degli altri; che è un cane della stessa razza dei nemici del popolo.
Non gli manca niente, non desidera niente; solo una corona per
recitare il rosario la sera, e non c'è nessuno che gliela porti di
filo di ferro per impiccarlo a un palo.
Prima però di questa
conclusione «senza sbocchi», perfettamente e sadicamente lucida,
tutto il corpo della poesia si fonda sulla reticenza come figura
retorica che dice ciò che nega. Che cosa nega Buttitta,
iterativamente, anzi, anaforicamente? Nega di essere lui, il poeta, a
provare rancore, odio, rabbia, coscienza di ingiustizia nei confronti
della classe al potere. Tutti questi sentimenti sono provati dal
popolo, di cui il poeta non è che interprete. Ma, attraverso tutto
ciò, Buttitta non fa che affermare il contrario. E perché? Perché
a dominare nel suo libro è la figura retorica di un popolo desunto
da un grande modello inaugurale (e ad esso riportato). Tale modello è
ambiguo, ma solo esteriormente. È il modello espresso dagli anni
rivoluzionari russi, nei suoi due lemmi figurativi : il formalismo e
il realismo socialista. I tratti sintetici con cui Buttitta traccia
la figura del popolo son quelli di una suprema «affiche»
formalistica, il metro, che ricalca la struttura della dizione orale
dai podii imbandierati, esprime invece i tratti analitici di una
figura del popolo che è quello dei quadri del realismo socialista.
Ecco perché il poeta — prima di chiedere di essere giustiziato
come borghese — predica in realtà a sé i caratteri che egli
predica al popolo. Buttitta non può infatti non sapere che il
popolo, e specialmente il popolo siciliano (di cui qui non si nega
affatto la capacità di rivolta e di furore) non è mai assomigliato
all'immagine che ne hanno avuto i partiti comunisti storici.
Esso serviva a quei
partiti per la loro tattica politica, e, in seconda istanza, serviva
ai poeti a cantare quella tattica. Il poeta che ha scritto Lingua
e dialettu non poteva che essere ben cosciente di tutto ciò. E
tuttavia, descrivendo il popolo così come egli l'ha descritto —
cioè convenzionalmente e quasi fintamente — Buttitta non è stato
affatto insincero. Una simile visione del popolo, ripresa, con impeto
pari al nitore, dal manierismo comunista protonovecentesco, fa parte
dell'ispirazione vera, cioè formale, di Buttitta. Egli ha sempre
ambito all'ufficialità comunista: e non c'è niente che alimenti con
più vitalità un'ispirazione manieristica che un'ufficialità non
ancora al potere, e, in certi frangenti, ancora quasi resistenziale e
clandestina. Neruda (citato da Sciascia che ha fatto la prefazione a
questo libro di Buttitta) è lo exemplum di una siffatta
operazione poetica. Ma mentre Neruda è un cattivo poeta, quest'umile
uomo di Bagheria, sentimentale, estroverso, ingenuo, e — secondo lo
schema della poesia popolare del «malnato» — tormentato da una
mancanza di amore materno che lo ha reso orfano e ossesso — è
quello che si dice un buon poeta. La figura retorica del popolo che,
in una vampa guttusiana, affolla di pugni chiusi e vessilli le sue
poesie, diventa perfettamente reale se vista (come non può non
essere vista dalla coscienza del poeta che ha scritto «Lingua e
dialettu») come inattuale. Appartenente cioè a quel mondo in cui si
parlava il dialetto, e ora non lo si parla che con vergogna, dove si
voleva la rivoluzione, e ora la si è dimenticata, dove vigeva
comunque una grazia (e una violenza) da cui ora si abiura.
Pier Paolo Pasolini
“Tempo”, 11gennaio
1974 – poi in Scritti corsari, Garzanti, 1975
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