5.7.14

Ignazio Buttitta, Pier Paolo Pasolini e il popolo

Ignazio Buttitta recita i suoi versi a Roccamena
La recensione che segue di Io faccio il poeta (Feltrinelli 1973), uno dei più importanti libri di Ignazio Buttitta, è – come dire? - autocentrata: Pasolini legge il poeta siciliano alla luce del proprio “populismo”. (In verità, dopo Berlusconi e Grillo si dovrebbe cercare un'altra parola, ma forse sarebbe stato più giusto coniarla appositamente, giacché del populismo originario, quello di Tolstoj e del socialismo rivoluzionario russo, nei due mediatici persuasori non c'è traccia veruna).
Ne viene fuori qualche scintilla, ma anche qualche acquisizione critica significativa. Il testo pubblicato originariamente sul settimanale “Tempo”, entrò nella raccolta degli Scritti corsari. (S.L.L.)
Pier Paolo Pasolini balla in una Casa del Popolo
Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io tuttavia sapevo di fare da una estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente definibile. Quando il dolore di vedermi circondato da una gente che non riconoscevo più — da una gioventù resa infelice, nevrotica, afasica, ottusa e presuntuosa dalle mille lire di più che il benessere gli aveva improvvisamente infilato in saccoccia — ecco che è arrivata l'austerità, o la povertà obbligatoria. In quanto provvedimento governativo io considero tale austerità addirittura incostituzionale, e m'indigno furiosamente al pensiero di quanto essa sia «solidale» con l'Anno Santo. Ma, come «segno premonitore» del ritorno di una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico povertà, non miseria. Son pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l'antico modo di sorridere; l'antico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura « povera » insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo... Sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni economiche, che hanno l'aria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, possono significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dell'umanità fosse ormai la storia dell'industrializzazione totale e del benessere, cioè un'«altra storia», in cui non avessero più senso né il modo di essere del popolo né la ragione del- marxismo. Forse il culmine di questa storia aberrante — benché non osassimo sperarlo — l'avevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola discendente. Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza. Certo (come leggo in Piovene), il recupero di tale passato sarà per molto tempo un aborto : una mescolanza infelice tra le nuove comodità e le antiche miserie. Ma ben venga anche questo mondo confuso e caotico, questo «declassamento». Tutto è meglio che il tipo di vita che la società stava vertiginosamente guadagnando.
Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent'anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. Forse non continuerò. I pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent'anni d'età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L'italianizzazione dell'Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com'è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c'è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica; mai «del potere»).
Questo svuotamento del dialetto, insieme alla cultura particolare che esso esprimeva — svuotamento dovuto all'acculturazione del nuovo potere della società consumistica, il potere più centralizzatore e quindi più sostanzialmente fascista che la storia ricordi — è esplicitamente il tema di una poesia di un poeta dialettale, intitolata appunto Lingua e dialettu (il poeta è Ignazio Buttitta, il dialetto è il siciliano). Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. Cultura e condizione economica sono perfettamente coincidenti. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) «conosce» realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l'infinita complessità dell'esistere. Solo quando qualcosa di estraneo si insinua in tale condizione economica (ciò che oggi avviene quasi sempre a causa della possibilità di un confronto continuo con una condizione economica totalmente diversa) allora quella cultura è in crisi. È su questa crisi che, nel mondo contadino, si fonda storicamente la «presa di coscienza» di classe (su cui del resto incombe eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una crisi di giudizio sul proprio modo di vita, uno stingimento della certezza dei propri valori, che può giungere fino all'abiura (cosa avvenuta appunto in Sicilia in questi ultimi anni a causa dell'emigrazione in massa dei giovani in Germania e nell'Italia del Nord). Simbolo di questa «deviazione» brutale e niente affatto rivoluzionaria della propria tradizione culturale, è l'annichilimento e l'umiliazione del dialetto, che pur restando intatto — statisticamente parlato dallo stesso numero di persone — non è più un modo di essere e un valore. La ghitarra del dialetto perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari che però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono regalare. Chi lo parla è come un uccello che canta in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l'abiura!). Ciò che non può essere (ancora) rubato è il corpo, con le sue corde vocali, la voce, la pronuncia, la mimica — che restano quelle di sempre. Tuttavia si tratta di una pura e semplice sopravvivenza. Benché ancora in possesso di questo organo misterioso « coi suoi lampi negli occhi » che è il corpo, « siamo poveri e orfani lo stesso ».
Questa poesia, così perfettamente tragica, ha un'equivalente in un'altra poesia dal titolo U rancuri. Anche qui la conclusione (espressivamente perfetta) non lascia adito a speranza alcuna. Il poeta dialettale e popolare (in senso gramsciano) raccoglie i sentimenti dei poveri, il loro «rancore», la loro rabbia, la loro esplosione di odio : si fa, insomma, loro interprete e loro tramite, ma lui, il poeta, è un borghese. Un borghese che si gode il suo stato di privilegio; che vuole la pace nella sua casa per dimenticare la guerra nelle case degli altri; che è un cane della stessa razza dei nemici del popolo. Non gli manca niente, non desidera niente; solo una corona per recitare il rosario la sera, e non c'è nessuno che gliela porti di filo di ferro per impiccarlo a un palo.
Prima però di questa conclusione «senza sbocchi», perfettamente e sadicamente lucida, tutto il corpo della poesia si fonda sulla reticenza come figura retorica che dice ciò che nega. Che cosa nega Buttitta, iterativamente, anzi, anaforicamente? Nega di essere lui, il poeta, a provare rancore, odio, rabbia, coscienza di ingiustizia nei confronti della classe al potere. Tutti questi sentimenti sono provati dal popolo, di cui il poeta non è che interprete. Ma, attraverso tutto ciò, Buttitta non fa che affermare il contrario. E perché? Perché a dominare nel suo libro è la figura retorica di un popolo desunto da un grande modello inaugurale (e ad esso riportato). Tale modello è ambiguo, ma solo esteriormente. È il modello espresso dagli anni rivoluzionari russi, nei suoi due lemmi figurativi : il formalismo e il realismo socialista. I tratti sintetici con cui Buttitta traccia la figura del popolo son quelli di una suprema «affiche» formalistica, il metro, che ricalca la struttura della dizione orale dai podii imbandierati, esprime invece i tratti analitici di una figura del popolo che è quello dei quadri del realismo socialista. Ecco perché il poeta — prima di chiedere di essere giustiziato come borghese — predica in realtà a sé i caratteri che egli predica al popolo. Buttitta non può infatti non sapere che il popolo, e specialmente il popolo siciliano (di cui qui non si nega affatto la capacità di rivolta e di furore) non è mai assomigliato all'immagine che ne hanno avuto i partiti comunisti storici.
Esso serviva a quei partiti per la loro tattica politica, e, in seconda istanza, serviva ai poeti a cantare quella tattica. Il poeta che ha scritto Lingua e dialettu non poteva che essere ben cosciente di tutto ciò. E tuttavia, descrivendo il popolo così come egli l'ha descritto — cioè convenzionalmente e quasi fintamente — Buttitta non è stato affatto insincero. Una simile visione del popolo, ripresa, con impeto pari al nitore, dal manierismo comunista protonovecentesco, fa parte dell'ispirazione vera, cioè formale, di Buttitta. Egli ha sempre ambito all'ufficialità comunista: e non c'è niente che alimenti con più vitalità un'ispirazione manieristica che un'ufficialità non ancora al potere, e, in certi frangenti, ancora quasi resistenziale e clandestina. Neruda (citato da Sciascia che ha fatto la prefazione a questo libro di Buttitta) è lo exemplum di una siffatta operazione poetica. Ma mentre Neruda è un cattivo poeta, quest'umile uomo di Bagheria, sentimentale, estroverso, ingenuo, e — secondo lo schema della poesia popolare del «malnato» — tormentato da una mancanza di amore materno che lo ha reso orfano e ossesso — è quello che si dice un buon poeta. La figura retorica del popolo che, in una vampa guttusiana, affolla di pugni chiusi e vessilli le sue poesie, diventa perfettamente reale se vista (come non può non essere vista dalla coscienza del poeta che ha scritto «Lingua e dialettu») come inattuale. Appartenente cioè a quel mondo in cui si parlava il dialetto, e ora non lo si parla che con vergogna, dove si voleva la rivoluzione, e ora la si è dimenticata, dove vigeva comunque una grazia (e una violenza) da cui ora si abiura.
Pier Paolo Pasolini


“Tempo”, 11gennaio 1974 – poi in Scritti corsari, Garzanti, 1975

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