Un articolo del grande
latinista per l'anniversario del Pci, il cui titolo originario, Verso
l'approdo, era forse
esageratamente ottimista. Oltre alla scrittura, elegantemente
classica, va notata l'intensa e commovente la rievocazione di un
primo maggio, su un treno, nei dintorni di Messina nei primi anni del
fascismo. (S.L.L.)
Verso l'approdo. 21
gennaio 1921 – 21 gennaio 1952
Il 21 gennaio 1921 a
Livorno, per opera di «un'aristocrazia intellettuale» — come gli
avversari si compiacquero dire — sorgeva il Partito comunista,
avanguardia della classe operaia in marcia verso un nuovo mondo
sociale e morale. Un nuovo mondo morale? Sì: quello che dovrà far
valere le promesse e obbligazioni morali finora tutte quante tradite
o fallite: un mondo dove l'interesse proprio non sia quello dei
monopoli capitalistici, ma l'interesse di tutti, e la libertà
propria non sia quella del signor Truman o del signor Churchill, ma
la libertà di tutti: quel nuovo mondo in cui certe parole capitali
della vita umana, come libertà e giustizia, acquistino finalmente un
autentico significato e non servano più a mascherare l'iniquo
esercizio di un funesto privilegio.
In quel giorno di
gennaio, per la lucida intelligenza di alcuni uomini, in un momento
di profonda crisi del regime borghese, si costituiva in Italia un
partito schiettamente operaio che, senza nulla trascurare di ciò che
sia giovevole alla organizzazione ed elevazione della classe
lavoratrice, tendesse decisamente a risolvere il conflitto sempre più
acuto tra le forze e le forme della produzione. Il distacco dei
comunisti dal Partito socialista e il loro passaggio alla
Internazionale comunista significava sostanzialmente la rivalutazione
di quel socialismo che nella Seconda Internazionale era stato ormai
soffocato da un cumulo di esitazioni fatali, di compromessi
insidiosi, di aperti tradimenti: e significava altresì il taglio
netto tra il massimo organismo sindacale e quel riformismo sociale
che, dopo la bancarotta del 1914, continua a vivere, serbato il nome
e l'inganno, e tuttora sussiste mediante quei detriti borghesi,
variamente qualificabili, che non sapendo come altrimenti definirsi,
si tengono appiccicato il vecchio cartello.
Quarantaduemila
comunisti, allora, nel gennaio 1921. Ora sono milioni di uomini e
donne: non agglomerato di politicanti maneggioni e malsicuri, né
associazione congegnata a determinate e non sempre confessabili
utilità, né partito che degni professarsi sostenitore o difensore
della classe operaia. Difendere spesso vuoi dire essere lontani: e la
difesa della classe operaia muove dall'interno della massa
proletaria. Gli uomini della piccola, della media o dell'alta
borghesia che passano al comunismo si inseriscono veramente nella
classe operaia e contadina per affermare la propria necessità
intellettuale e spirituale di partecipare direttamente alla lotta di
classe. Questo vuoi dire essere comunisti: e la nostra dottrina e la
nostra fede è in questa affermazione di libertà e di volontà che
ci consente di metterci senza limite alcuno contro tutti gli
oppressori del popolo lavoratore, contro tutti coloro che dei
diseredati del mondo vogliono fare ancora lo strumento di uno
scellerato privilegio.
Ricordo un primo maggio
dell'anno 1923 a Messina. Giorno di lavoro, quello, perché la festa
dei lavoratori era stata spostata al 21 aprile, rispolverato
natalizio di Roma imperiale. Cosi si gingillano i governanti violenti
e sconsigliati; si gingillano nell'abolire le voci ricorrenti dei
tempi, i segni luminosi di un memorabile cammino. Giorno di lavoro,
quello: ma nella fresca e limpida mattinata lungo la riviera
incantata si andava nel piccolo treno a solennizzare la nostra festa:
e dal fondo dell'animo nostro venivano parole certe e liete, se anche
le fronti erano corrugate. I ferrovieri ascoltavano in silenzio, e le
operaie ascoltavano anch'esse, sorridenti; poi una cavò da un foglio
di carta sgualcita un mazzetto di garofani rossi e ne distribuì a
noi mormorando: «all'occhiello no: potrebbero farvi del male quei
vigliacchi!». Dei ferrovieri qualcuno, più anziano, singhiozzava,
non per la pena ma per la
felicità. E quando uno di noi alzò la voce: «Coraggio, compagni!
anche senza cortei, anche senza bandiera, avanti!», fummo tutti
felici per la certezza che ci fremeva nel cuore. Già: anche senza
cortei né bandiere, avanti! E' questa, signori della santa alleanza
atlantica, la ragione della infallibile avanzata proletaria, questa:
che non occorrono clamori e insegne splendenti perché la marcia
proceda; essa, anzi, si fa più spedita nel buio. Se anche —
ammettiamo l'ipotesi assurda — in un prossimo giorno dovessero
sventolare per le piazze e per le strade soltanto labari e orifiammi
della Chiesa romana o del nazionalismo fascista; se anche solo le
processioni dei litanianti o le turbe dei nuovi squadristi dovessero
occupare le strade dei borghi e delle città, non per questo avreste
motivo di rallegrarvi. Non basta togliere le insegne e la voce al
nemico: bisognerebbe disarmarlo e disperderlo e convenirlo in docile
servitù. Sapete che questo non avverrà mai, perché la ragione
stessa della vostra vita e del vostro dominio ha bisogno di tenere
insieme questa massa che dovrebbe lavorare per voi e per voi uccidere
e farsi uccidere. E questa massa oggi ha un tesoro immenso di
risolutezza, di fede e di forza: questa massa è l'innumerevole
esercito del socialismo.
Un saggio ministro diceva
a un giovane incrudelito imperatore romano: «Per quanti avversari tu
possa uccidere, non ucciderai mai il tuo successore». Questo
impazzito imperialismo capitalistico, per quanti strumenti di rovina
possa accumulare nei cantieri della morte, non distruggerà mai il
suo successore, che oggi ha un nome solo: socialismo.
l'Unità, 20 gennaio
1952.
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