Hokusai - una immagine del monte Fuji |
Il Monte Fuji, il vulcano
dalla forma conica perfetta e dai declivi simmetrici, la montagna più
alta del Giappone con i suoi 3.776 metri, il simbolo per antonomasia
del Sol Levante, è stato riconosciuto patrimonio universale
culturale dall’Unesco durante il 37/mo meeting tenutosi in
Cambogia, a Phnom Penh, lo scorso 22 giugno.
La notizia ha ovviamente
riempito i notiziari e gli speciali di tutte le tv giapponesi, oltre
alle pagine dei giornali: prima con la frenesia e l’aspettativa dei
giorni di attesa del verdetto e le elucubrazioni divertite su chi
fosse stata la persona che per prima ebbe l’idea di presentare la
richiesta all’Unesco; poi, dopo la conferma, con le lacrime di
commozione, di orgoglio e di gioia miste alle parole di
preoccupazione per il futuro della montagna - che sarà ancora più
presa di mira dal turismo internazionale – espresse dalle autorità
locali e, in particolare, dagli abitanti delle province limitrofe di
Shizuoka e Yamanashi, peraltro firmatarie della domanda presentata
nel 2007.
Qualcuno si chiederà,
trattandosi di un vulcano, perché non sia stato attribuito un
riconoscimento come sito naturale. In realtà, tale richiesta venne
presentata in passato, ma fu scartata nel 2003 non avendo il
paesaggio mantenute le sue caratteristiche di integrità come zona
vulcanica naturale. Invece, la sua rilevanza è stata provata
piuttosto a livello culturale con la dicitura: «Monte Fuji: oggetto
di culto e sorgente di arte».
L’area riconosciuta
protetta comprende la vetta, perennemente imbiancata nell’immaginario
collettivo alimentato da secoli di letteratura e immagini pittoriche,
i sentieri che risalgono lungo i pendii e le particolari
conformazioni naturali che vi si trovano: le cascate Shiraito, i
cinque laghi principali, le sorgenti termali ma anche cumuli di lava
(l’ultima eruzione risale a trecento ani fa) e il bosco di pini
Miho no Matsubara, oltre ai siti religiosi come i due più importanti
santuari shintoisti che rappresentano le porte di accesso al monte
per i pellegrini: il Fujisan Hongu Sengen Jinja a Fujinomiya e il
Kitaguchi Hongu Fuji Sengen Jinja a Fujiyoshida, e i luoghi di
ricovero e alloggio storici.
Tutto il complesso è
oggi testimonianza della venerazione religiosa verso questa montagna
che supera ogni culto accomunando la «via degli Dei» (shinto), di
cui il Fuji è simbolo assoluto, al pensiero buddhista, che vede
nella sua vetta e nei boschi sottostanti luoghi ideali di meditazione
e ascesi. Per i giapponesi è il Fujisan, non semplicemente il Fuji o
il monte Fuji, al quale ci si rivolge con la reverenza e il rispetto
dovuti a una vera e propria divinità. Sì, perché se tante sono le
montagne considerate sacre nel mondo in quanto luoghi che ospitano il
divino, è solo il Fuji a essere esso stesso divinità. E difatti in
epoca Edo, a partire dal Seicento sotto lo shogunato Tokugawa
(1603-1868), si sviluppò un movimento di culto detto «Fujiko» con
gruppi di pellegrini che scalavano il Monte sacro come segno di
devozione.
Lo stesso culto confermò
anche la divinità principale del Fuji, venerata nei santuari
presenti sul monte e negli altari di famiglia. Si tratta della Dea
Konohana Sakuyahime, di cui raccontano le prime cronache sulla
mitologia delle origini dell’arcipelago dell’VIII secolo
(Kojiki); una divinità associata al fuoco e forse per questo
successivamente anche al Fuji, a cui la città di Fujiyoshida dedica
ogni anno il 26 agosto la «cerimonia del fuoco» accendendo torce
in suo onore e chiudendo la stagione di scalata del Fuji.
Non si contano i versi
poetici e i racconti dedicati al vulcano, così come sono tantissime
le immagini pittoriche che lo immortalano da ogni punto di vista e da
ogni provincia del Giappone e, ancora oggi, nelle giornate più
limpide si può scorgere quasi per magia la sua sagoma tra i
grattacieli di Tokyo, da un finestrino del treno in qualche punto
sopraelevato, o tra i fili della luce mentre sfreccia lo shinkansen
verso Kyoto su quella che era la via del Tokaido, l’arteria
principale percorsa a piedi, con portantine e cavalli e che univa la
capitale imperiale (Kyoto) a quella amministrativa, sede dello shogun
dal 1603, allora chiamata Edo e oggi Tokyo. Fu proprio questa l’epoca
in cui fiorì maggiormente un mercato delle immagini souvenir e il
soggetto del Fuji si confermò come best-seller, parallelamente ai
ritratti di bellissime cortigiane e famosi attori di teatro kabuki.
Accanto a grandi paraventi decorativi, dipinti con paesaggi di erbe e
fiori selvatici a perdita d’occhio su cui svettava il Fuji,
destinati a grandi abitazioni e ricchi committenti, nacque una
produzione più popolare ed economica di immagini silografiche di
piccolo formato, destinate a soddisfare la sempre più ampia
richiesta di viaggiatori, pellegrini e cittadini che con bastone,
cappello e stola di paglia si recavano alla montagna sacra. Sono le
già note immagini del «Mondo Fluttuante» che serie dopo serie,
edizione dopo edizione, affermavano e confermavano le località
celebri di un Giappone premodermo, i luoghi culto che i cittadini
alla moda non potevano perdere, oltre che le tendenze del momento.
Nessuno dei grandi
maestri dell’ukiyoe poté esimersi dal proporre serie
interamente dedicate al Fuji, che ebbero tale successo da essere
rimpinzate dagli editori in corso d’opera. Per cui la famosa serie
delle Trentasei vedute del Monte Fuji, realizzata da
Katsushika Hokusai tra il 1830 e il 1832, è in realtà composta di
46 stampe. Mentre, allo stesso soggetto, sempre Hokusai dedicò anche
due volumi di Cento vedute del monte Fuji (1834-5 e 1849 ca.)
con immagini monocrome a inchiostro. Hiroshige, l’altro grande
paesaggista dell’ukiyoe, creò a sua volta due serie
intitolate Trentasei vedute del Fuji: una nel 1852 con
immagini orizzontali e una nel 1858 invece in verticale. Seppur con
qualità diverse - Hokusai più interessato all’aspetto umano e
alla vita quotidiana che si svolge in primo piano rispetto al monte
Fuji, Hiroshige invece più sensibile alla natura e al paesaggio come
espressione del divino
dove la presenza umana passa in secondo piano - tutte queste immagini
hanno come fulcro il vulcano, che si erge a protezione di tutto ciò
che avviene ai suoi piedi. Traspare il senso religioso verso la
natura in generale e verso il Fujisan che ne è simbolo sublime: le
immagini venivano acquistate non solo da chi volesse portarsi a casa
un ricordo dei luoghi visitati, ma piuttosto da quella fetta di
popolazione che non poteva permettersi di viaggiare realmente e lo
faceva con l’immaginazione.
Nella seconda metà
dell’Ottocento questo ruolo fu a poco a poco assorbito dai primi
fotografi professionisti che a quelle opere si ispirarono,
prolungandone l’immaginario legato ai luoghi già celebri col nuovo
mezzo e l’aggiunta del colore a mano. In epoca moderna spetta alla
cartolina questo compito, oggi per i più tecnologici, esistono le
immagini postate sui vari social network.
E se il pellegrino non va
al Fuji, allora è il Fuji che va dal pellegrino. Un detto che vale
anche in Giappone dove proprio nello stesso periodo Edo, sempre per
venire incontro ai cittadini delle province più lontane, ai meno
abbienti, ai più sedentari o a quanti per motivi di salute o
vecchiaia non potevano affrontare il pellegrinaggio e la scalata al
Fuji, si cominciarono a erigere dei «Piccoli Fuji» (Kofuji) dentro
i recinti di santuari locali nei piccoli villaggi. Si portavano le
pietre del Fuji e le si ammucchiava a risemblare la forma della
montagna, ma con un’altezza che si aggirava intorno ai 5 metri,
scalabile a piccoli passi e in pochi secondi. Sulla cima veniva
collocato un santuarietto, simbolo della presenza divina a cui si
rivolgevano in preghiera i fedeli al termine della salita.
Ancora oggi esistono
«Piccoli Fuji» sparsi in tutte le regioni del Giappone e i fedeli
vi si recano in pellegrinaggio: una sorta di processione in miniatura
per ammirare virtualmente la bellezza del Fujisan. Per chi si
trovasse a Tokyo, privo di tempo e di fiato, vi è un «Piccolo Fuji»
costruito nel 1790 presso il santuario Teppozu Inaribashi Minato
Jinja, nella zona di Hacchobori, divenuto famoso e rappresentato
nella serie di Cento vedute di luoghi celebri di Edo (1856-58)
di Hiroshige; per i più fedeli, invece, meglio un viaggio verso
l’originale che oramai, grazie a shinkansen e autobus
autostradali che regolarmente collegano la metropoli alle pendici del
monte a prezzi modici, e al fatto che con l’auto si possa
raggiungere la quinta stazione a duemila metri, risulta quanto di più
facile si possa pensare. Il panorama vale la gita, come voto forse
vale un po’ meno.
“il manifesto”, 23
luglio 2014
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