"Se uno prende la
moglie di suo fratello, è un' impurità; egli ha scoperto la nudità
di suo fratello; non avranno figlioli". Di questo passo del
Levitico Enrico VIII si servì per impugnare la validità del
matrimonio con Caterina d'Aragona, la prima delle sue sei spose. Il
brano in questione non dimostrava che prendere la moglie di un
fratello fosse tassativamente proibito in qualsiasi circostanza (come
nel caso che essa fosse stata precedentemente ripudiata o, cosa più
importante, che il fratello fosse defunto).
Sta di fatto che su
questa controversa citazione - anziché sulla tesi, assai più
efficace, che il primo matrimonio di Caterina non era stato consumato
- il re d'Inghilterra impostò per sette lunghi anni la sua battaglia
con il diritto canonico per ottenere dal Papa l'annullamento delle
nozze con la vedova di suo fratello Arturo. Una battaglia che scatenò
una disputa internazionale altrettanto accesa e talora non meno
stimolante - per il gran numero di uomini di Chiesa e di cultura
spronati a prendere la penna - del contemporaneo conflitto fra
polemisti cattolici e protestanti. D'altra parte su questo dissidio
si consumò il divorzio fra la monarchia inglese e il papato, che
diede origine alla Chiesa anglicana.
Ancor oggi ci si chiede
se fosse davvero ineluttabile il ripudio della figlia di Ferdinando
d'Aragona da parte del sovrano inglese (che con questo si inimicò la
Spagna e l'imperatore Carlo V), e in che misura il suo disappunto per
l'inatteso rifiuto di Roma a concedergli il divorzio abbia influito
sulla decisione di abbracciare la causa protestante. Se infatti per
Enrico quella di avere un figlio maschio che assicurasse la
continuità della dinastia era una ovvia necessità, le conseguenze a
cui egli andò incontro separandosi da Caterina (che non gli poteva
dare il sospirato erede al trono) furono assai più imbarazzanti e
pericolose, dal punto di vista politico, di quanto sarebbe accaduto
nel caso che egli si fosse rassegnato a lasciar erede la principessa
Maria, avuta appunto da Caterina.
Per ben dieci anni, dal
1527 al 1537 (quando nacque infine Edoardo dal matrimonio del re con
Jane Seymour) il problema della successione continuò ad avvelenare
la vita politica del paese e i suoi rapporti con le altre potenze
(anche a causa degli infruttuosi o maldestri espedienti escogitati
dal re per risolverlo). Non solo: i feroci tumulti che afflissero il
regno di suo figlio e il successo, invece, della sua figliuola più
giovane, Elisabetta (ascesa al trono nel 1558), rappresentarono in un
certo qual senso una sorta di beffarda nemesi nei confronti
dell'ingarbugliatissima vita matrimoniale di Enrico e degli affanni
che aveva procurato a se stesso e ai suoi sudditi.
Analoghe perplessità si
potrebbero avanzare a proposito della questione religiosa. Una volta
scomparsa Caterina nel gennaio 1536 (evento che Enrico aveva
festeggiato ballando e torneando), e mandata pochi mesi dopo al
patibolo (sotto l'accusa di adulterio) Anna Bolena, la donna di cui
il re si era un tempo ardentemente invaghito e che era diventata poi
la sua seconda moglie, in teoria non esisteva più alcun ostacolo
pregiudiziale ad una eventuale riconciliazione con il papato: nemmeno
il verdetto di scomunica decretato a suo tempo dal Concistoro,
giacché si potevano pur sempre intavolare delle trattative per un
ritiro di quel verdetto. D'altra parte, per affermare la supremazia
regia sulla Chiesa secolare, ad Enrico sarebbe probabilmente bastato
ciò che aveva già fatto, confiscando monasteri e rendite
ecclesiastiche, senza spingersi più in là al prezzo di spaccare il
paese in due e di far sopprimere uomini impareggiabili, e oltretutto
devoti alla Corona, come Fisher e Tommaso Moro. Di fatto la sua
signoria fu molto più severa di quanto non fosse stata quella dei
Papi, mentre le speranze che le ricchezze racchiuse nei conventi
sarebbero state impiegate a fini educativi e sociali andarono presto
deluse.
Di questo avviso è anche
l' autore dell'ultima biografia del sovrano, scritta dallo storico
inglese John Scarisbrick (Enrico VIII, Il Mulino) sulla base
di una minuta esplorazione dei documenti del tempo. Non si può
negare infatti che le spinose questioni matrimoniali del re, lo
scisma da Roma, l'attacco contro il monachesimo inglese, le
esecuzioni che macchiarono di un'ampia chiazza di sangue il nuovo
regime, le ribellioni nelle province e la loro repressione abbiano
provocato ondate ricorrenti di malcontento e di inquietudini (se
Enrico avesse conosciuto i veri sentimenti dei suoi sudditi - si
diceva nelle campagne del Kent nel 1538 - "gli sarebbe mancato
il cuore"). Sotto ben altri auspici s'era aperto il suo regno
nel 1509, sullo sfondo agitato e sfarzoso del primo Rinascimento.
C'era stato allora un coro di elogi e di simpatie per il diciottenne
sovrano, splendente per avvenenza e prestanza fisica ("molto più
bello di ogni altro sovrano della cristianità", come scriveva
un affascinato ambasciatore veneto), campione nei tornei e nelle
giostre, e in più intelligente ed istruito (tanto da essere in grado
di discutere con Tommaso Moro di astronomia come di geologia), che si
dilettava di musica e di canto.
E i suoi primi esordi -
anche se non erano stati dei più felici, giacché il tentativo di
rompere il tradizionale isolamento inglese partecipando alla Lega
Santa promossa da Giulio II contro la Francia si concluse con il
fallimento della spedizione inviata a riconquistare la Guascogna,
perduta nella guerra dei Cento Anni - non avevano smentito questa
immagine seducente di un monarca che sembrava impersonare tanto il
modello perfetto del principe rinascimentale, generosamente dotato
nel corpo e nella mente, quanto l'archetipo del gran signore feudale
di tradizione borgognona, tutto preso dalle gesta cavalleresche e
dall'amor cortese. D'altra parte la pronta rivincita in battaglia che
Enrico si prese nel 1513 su Luigi XII e la sua candidatura nel 1519
al titolo imperiale (ciò che non era mai passato per la testa di
nessun sovrano inglese) gli fecero credere di poter svolgere una
parte di primo piano sulla scena europea, in competizione con Carlo V
e Francesco I. In realtà il gioco di attizzare i contrasti fra i
suoi rivali, e di allearsi ora con l'uno ora con l'altro, non diede
alla lunga i frutti sperati, a parte un effimero prestigio
internazionale. Del resto, l'uomo che sembrava nato con la vocazione
del guerriero non riuscì mai a conquistare autentici allori
militari, mentre i suoi maneggi diplomatici, se lo fecero apparire
talora il pacificatore d' Europa, l'emblema per eccellenza del
"principe cristiano", lo lasciarono per il resto a mani
vuote, con lo stesso amaro in bocca che gli procurò lo sperpero di
tante preziose risorse, sacrificate al suo amor proprio o ai suoi
miraggi di gloria.
E tuttavia questo
sovrano, prodigo ed arrogante, questo ipocondriaco dal carattere
imprevedibile, segnato da una profonda vena di crudeltà e da un'
indole sospettosa, fu una figura a suo modo geniale ed affascinante.
Non soltanto per il modo con cui portò le insegne della regalità,
nella superba convinzione di essere sempre nel giusto e di non
trasgredire mai i limiti della correttezza costituzionale, ma anche
per i segni che egli lasciò nell'anima e nell'identità del suo
paese. Dietro la spietata violenza e la straripante energia di Enrico
c'era una autentica forza costruttiva, una volontà realizzatrice che
(grazie anche all'apporto di alcuni suoi collaboratori, come Wolsey e
Thomas Cromwell) pose le fondamenta della nascente potenza inglese.
In questo senso il re
seppe interpretare quasi d' istinto l'impetuosa crescita della
società traboccante di orgoglio nazionale, non più disposta a
tollerare i privilegi delle vecchie istituzioni ecclestiastiche,
pervasa da un pietismo biblico fortemente laico e insieme da un
desiderio aggressivo di arricchimento e di ascesa. Certo la flotta
inglese, nonostante le cure prestatele, non era giunta a dominare i
mari; le vie dell' oceano Atlantico non si erano ancora dischiuse,
l'erario, dopo tante avventure, era in condizioni disastrose e la
"vigna" della riforma aveva bisogno di nuovi operai. In
compenso, nei suoi 37 anni di regno Enrico edificò un potere
monarchico saldo ed efficace, se non per la sua lungimiranza di
statista, almeno per la fredda determinazione con cui adoperò la
scure e per la sagacia di cui diede prova nello scegliere dei
ministri abili e realistici.
“la Repubblica”, 29 luglio 1984
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