Federico Rampini |
Nella lunga carriera di
corrispondente internazionale, Federico Rampini ha saputo mettere
insieme la curiosità del cronista e il gusto dell’analisi di
prospettiva. Queste caratteristiche non vengono meno nel suo ultimo
libro (Alla mia sinistra. Lettera aperta a tutti quelli che
vogliono sognare insieme a me, Mondadori, Milano 2011), in cui
l’esortazione alla ricostruzione della sinistra attinge al
reportage, all’analisi teorica, all’intervista.
Il discorso muove dalla
definizione della crisi in atto come “grande contrazione”, in cui
si intersecano fenomeni globali quali il raggiungimento dei limiti
naturali dello sviluppo, una sconfitta storica del lavoro dipendente,
lo spostamento del baricentro geopolitico verso est e sud, una
poderosa redistribuzione, al contrario, della ricchezza. Se in alcuni
punti tale situazione mostra delle analogie con la crisi del 1973
(che chiudeva una lunga fase di sviluppo e di diffusione del welfare)
per altri aspetti - come il ritorno del predominio di una élite
plutocratica - sembra mostrare le condizioni che prepararono la crisi
del 1929, aprendo al rischio di una svolta reazionaria per
l’incompatibilità tra capitalismo multinazionale e democrazia.
I deludenti risultati di
Obama indicano l’incapacità di fornire un’alternativa di
sinistra alla crisi globale. Analogamente a Clinton, Obama ha cercato
di promuovere una via d’uscita dalla crisi che non intaccasse il
funzionamento dei mercati, usando molta cautela nel limitare il
potere della finanza per attuare politiche redistributive. Oltre ai
vincoli di bilancio e politici, emerge il portato di trent’anni di
egemonia della destra, che hanno diffuso, anche tra i ceti popolari,
l’idea che tasse e Stato siano un male in sé e che la libertà
assoluta dell’impresa sia il metodo migliore per favorire merito e
uguaglianza.
La crisi mostra
l’impraticabilità del “liberismo di sinistra”, che per Rampini
non è una peculiarità statunitense, le sinistre delle due sponde
dell’oceano essendo molto più simili di quanto si creda, come egli
stesso ha sperimentato a partire dalla California di fine anni ’70.
Insieme all’afflato libertario che nutriva gli esordi della
rivoluzione informatica, si affermava in quella stagione quello
spirito di rivalsa antistato e antisociale che, impersonato da Ronad
Reagan, avrebbe generato la slavina della rivoluzione conservatrice,
tra le cui conseguenze vi è anche la difficoltà di rilanciare
un’efficace azione pubblica. Il messaggio “pubblico uguale
cattivo” è diventato senso comune non solo per la crisi fiscale
dello Stato, ma anche per effetto di una gestione inefficiente dei
servizi, di cui hanno pagato il prezzo i soggetti che più hanno
bisogno di ricorrervi, meno pronti a opporsi alle politiche di
detassazione e smantellamento che li ricacciano nella povertà. Nel
caso italiano questa situazione è evidente: declino del paese e
sconfitta della sinistra devono non poco alla mancata riforma dello
Stato.
L’impasse di Obama è
dunque per tutti un campanello d’allarme: senza strade alternative
l’attuale crisi avrà esiti catastrofici per ambiente, società e
democrazia. Solo la sinistra può salvare il mondo, afferma Rampini,
ma per farlo deve guardare oltre, tanto in senso geografico quanto in
senso politico, sapendo cogliere le sfide e le potenzialità che
vengono da fuori dell’area euratlantica, a cominciare dalla Cina.
Con tutte le sue contraddizioni essa non è un colosso dai piedi
d’argilla: le dimensioni continentali, l’eredità di un’antica
civiltà, rendono impossibile “tenerla ai margini”, tanto meno
con l’ipocrita argomento dei “limiti dello sviluppo”. La stessa
“fedeltà” ai simboli del comunismo va letta sia come strumento
per coniugare sviluppo e stabilità (per esempio nella selezione dei
gruppi dirigenti), sia come difesa dei ceti medi in crescita, sia
infine come promessa di una società meno diseguale per la massa
contadina.
Certo essa non può
essere presa a modello, ma se un non marxista come Amartya Sen
sottolinea il maggiore sforzo redistributivo della Cina rispetto
all’India, ciò indica che la superiorità della democrazia
rappresentativa è tale solo se si sostanzia di contenuti sociali.
Tra altre esperienze
emergenti spicca il Brasile di Lula, che con il nuovo protagonismo
della società civile, e una diversa presenza dello Stato, ha saputo
usare un’eccezionale fase di sviluppo per ridurre le disuguaglianze
sociali, arricchendo i poveri piuttosto che impoverendo i ricchi e
rappresentando una delle strade possibili per un rilancio della
socialdemocrazia.
Certo, esistono ancora
molte contraddizioni, ed è ancora difficile da valutare la capacità
dei paesi emergenti (Bric) di conquistare maggiore peso geopolitico.
Tuttavia a sinistra è opportuno indagare questi fenomeni piuttosto
che attardarsi nell’ennesima contemplazione del “declino
dell’occidente”. Anche il modello sociale europeo, infatti,
sembra resistere solo nella versione tedesca, con la democristiana
Merkel a difendere quello socialdemocratico fatto di redistribuzione
e difesa dei posti di lavoro. La sfida degli emergenti pone quindi il
problema di una “governance sociale della globalizzazione”, cioè
di come articolare una risposta allo strapotere capitalistico che non
sia il semplice protezionismo.
Col misto di impotenza e
rassegnazione che sembra bloccarla, l’Italia, che Rampini sa
guardare contemporaneamente da dentro e da fuori, ha un ruolo
emblematico e peculiare allo stesso tempo. Nei confronti dell’Europa,
ad esempio, ha sempre oscillato tra indifferenza colpevole e
subalternità da ultimo della classe, per cui molte misure vengono
adottate solo come frutto di un “vincolo esterno”, di una
necessità stringente. E’ esattamente ciò che ha fatto la sinistra
nella crisi attuale, nella speranza che i mercati “disciplinino”
la politica, con un atteggiamento che può servire nella
individuazione dei sintomi della malattia, ma si trasforma in un
disastro se usato come cura.
Sul piano dei rapporti
internazionali, la stagione berlusconiana ha accentuato il
deterioramento geopolitico dell’Italia, che invece potrebbe
assumere un ruolo importante di leadership nell’area mediterranea
nell’età delle rivoluzioni arabe.
Oltre alle prospettive
generali, Rampini cerca spunti per un rinnovamento della sinistra
nelle emergenti forme di espressione della società civile: dalla
condivisione orizzontale delle conoscenze permessa dalla rete, al
ruolo delle imprese start-up, fino alle nuove tendenze filantropiche
di alcuni grandi ricchi, tutte indicano la necessità di derogare al
declino fatale dell’organizzazione politica.
Insomma, se Lenin, dopo
le prime esperienze del potere aveva semplificato la via al
socialismo come “Soviet più elettrificazione”, la ricetta di
Rampini si può riassumere in “Welfare più internet”. Fuori di
slogan, di fronte alla “catastrofe imminente” (sempre per restare
a Lenin) occorre adottare forme aggiornate di redistribuzione dei
redditi, senza le quali nessuno sviluppo è possibile; a loro volta
queste politiche devono poggiare su forme diffuse di attivismo della
società civile.
E’ poco? E’ troppo?
Non tutte le indicazioni di Rampini sono convincenti, ma colpisce
positivamente l’ipotesi che l’esistenza della sinistra sia
possibile solo sul piano internazionale e proponendo un modello
complessivo di società.
“micropolis” gennaio
2012
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