Un
saggio sul primo Sciascia, centrato sul rapporto con Italo Calvino. A
più di vent'anni dalla prima pubblicazione mi pare tuttora utilissimo, oltre che acuto e convincente. (S.L.L.)
Leonardo Sciascia, Giancarlo Vigorelli, Giulio Einaudi, Italo Calvino |
Gli zii di Sicilia
è il penultimo «Gettone», il numero 57, è del 1958, contiene tre
racconti e costituisce l'esordio narrativo di Leonardo Sciascia.
Nel 1950 escono infatti, presso l'editore Bardi di Roma, le brevi
prose delle Favole della dittatura, nel '52 un volume di
poesie, La Sicilia, il suo cuore, nel '53 il saggio Pirandello
e il pirandellismo e finalmente nel 1956 Le parrocchie di
Regclpetra, da molti ritenuto il suo «primo libro». Italo
Calvino ha inviato ad Alberto Carrocci il testo di Cronache
scolastiche, troppo
esiguo per tirarci fuori un «Gettone», e così “Nuovi argomenti”
l'ha pubblicato all'inizio del 1955. La storia l'ha raccontata in
diverse occasioni Sciascia stesso: lo scritto fu notato da Vito
Laterza che pensò di fargli scrivere tutto un libro sul suo paese,
così nacque su commissione Le parrocchie di Regalpetra.
Ma narratore Sciascia lo
era già. Così nel 1956 invia sempre a Calvino un racconto, Stalin.
Il giudizio dello scrittore ligure non è del tutto soddisfacente:
«Insomma è un libro a cui se tu ti sentissi di lavorarci ancora.
potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superfìciale, con un
sospetto di facilità. Calvino è poco convinto, ma questo non
impedisce che l'ipotesi di un «Gettone» col racconto del giovane
siciliano vada avanti. Qualche mese dopo sembra cosa fatta, anche se
il libro ancora non esce: la collana di Vittorini è in via di
liquidazione. Intanto i racconti sono diventati due. Nella lettera
successiva Calvino esprime il suo giudizio su La zia d'America
e sull'ultimo arrivato, Il quarantotto. Ancora non è
d'accordo: e contesta la riuscita dei racconti. Il quarantotto
è «un racconto storico così così»; certo Sciascia ha un ottimo
«mestiere e una gran limpidezza di segno», ma il risultato non è
del tutto chiaro. Il redattore dell'Einaudi preferisce La zia
d'America, «felice e divertente», anche se ci si sente Brancati. Il
suo paie-re è irrevocabile: «La tua cosa più forte resta le
Cronache scolastiche. E' una cosa che esce dalla letteratura
documentaria di questi anni, perché non c'è solo il documento, ma
ci sei tu dentro che guardi».
Non c'è dubbio che il
giudizio di Calvino è fortemente condizionato dai canoni letterali
dell'epoca, e in particolare dal suo stesso rovello, quello di
scrivere un romanzo neorealista, tentativo amaramente fallito. Forse
è per questo che non riesce a vedere la vena favolistica che a
tratti scorre anche ne Il quarantotto, una vena che, almeno in
parte, deriva da Ippolito Nievo - appare nel racconto anche come
personaggio - e a scorgere il giovane protagonista arrampicato sugli
alberi con la sua Pisana; eppure nel 1957 lo scrittore ligure ha
pubblicato Il barone rampante. Scrivendo il risvolto del
«Gettone», Vittorini battezza con i nomi di Brancati e di Nievo il
nuovo scrittore siciliano, di cui segnala l'ampiezza di interessi e
impegni culturali e insieme la radice meridionale. L'esordio è
risicato, tanto che, anni dopo, riparlando di quell'inizio, Sciascia
ricorda la volontà di Vittorini di liquidare con quel volume
l'esperienza della collana dei giovani narratori: «Probabilmente se
la giuria di Libera Stampa non mi avesse premiato, avrei liquidato
anch'io la mia esperienza, appena cominciata».
La vittoria nel premio
svizzero convince l'editore alla pubblicazione. Pochi all'epoca
compresero che Le parrocchie di Regalpetra era già un libro
narrativo, alla Sciascia naturalmente, ma allora quella maniera
doveva ancora farsi strada tra i lettori e i critici. E' sempre a
posteriori che i giochi sembrano fatti, e l'autore stesso, scrivendo
la prefazione per la ristampa del libro apparsa nel 1967 insieme
all'importante e sottovalutato Morte dell'Inquisitore (1964), il suo
libro non-finito, scrive «E' stato detto che nelle Parrocchie di
Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri,
variamente svolto. E l'ho detto anch'io». Ma qual è la maniera
propria di Sciascia? Un originale fusione di saggismo e narrazione,
storia e romanzo poliziesco, architettura narrativa e apologo,
moralità e acribia filologica, analisi sociologica e romanzo,
interpretazione politica e caso esemplare. Tutto questo rende ardua
la catalogazione dei suoi libri; le formule della critica letteraria
risultano troppo strette, dal momento che romanzo e saggio si
mescolano, producendo tutta una serie di casi intermedi legati più
alle singole opere che alle definizioni generali. E, come spesso
accade nel lavoro degli scrittori, la matrice è tutta contenuta in
quei primi libri, specie nelle Parrocchie di Regalpetra e
negli Zii di Sicilia, da cui tutto si sviluppa, come un albero
dal seme, se non che questo albero è un caso unico nella tassonomia
dei generi e delle specie.
Le parrocchie di
Regalpetra, libro a cavallo tra cronaca e narrazione, contiene il
documento storico, il racconto, l'apologo morale, la testimonianza
sociale, il resoconto giornalistico, la mediazione, l'indagine
lessicale, l'annotazione antropologica, la denuncia del malcostume
politico. E' un libro di letteratura, ma anche di grande
testimonianza civile; l'unico che gli può stare accanto, in quella
fine degli anni '50, è il libro di un altro grande provinciale, le
Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani, uscito l'anno
seguente, ma scritto nel 1954.
Il paragone non è
irriguardoso per il grande scrittore, poiché riletto oggi il libro
di Don Milani non è da meno di quello di Sciascia, sia sul piano
intellettuale che su quello del linguaggio, tanto che, in una futura
antologia della prosa italiana, accanto a quella dello scrittore
siciliano, vero modello di un costrutto sintattico che corrisponde
perfettamente al costrutto mentale, potrebbe figurare quella
dell'autore delle Esperienze pastorali, e soprattutto della
straordinaria Lettera. Anche don Milani ricorre alla cronaca e
alla storia, illumina il presente con il passato, possiede il gusto
del racconto, dell'apologo, dell'esempio brillante, e ha persino il
dono di una lingua efficace, freschissima, (si pensi a che cos'era la
lingua italiana allora, tra retorica ereditata da un ventennio
fascista e il trionfante linguaggio clericale dell'italietta
democristiana che ha sempre avuto in spregio la cultura e gli
scrittori).
Ma mentre il prete di San
Donato lavorava per la riforma della sua amata chiesa, con tabelle,
disegni, fotografie, ritagli di giornale, Sciascia è già un
letterato bell'e fatto, direttore di una rivista di provincia
intelligente e aperta, “Galleria,” che organizza convegni e
dedica numeri unici a scrittori. Questo per dire del carattere
eminentemente letterario del lavoro dello scrittore siciliano,
carattere che persino Calvino stentava a riconoscergli pienamente,
almeno sul piano formale. Scrivendogli a proposito dei tre racconti
che compongono Gli zii di Sicilia il redattore einaudiano
batte sul tasto di una letteratura terribile. Così, per lui, deve
essere la letteratura contemporanea, altro che «pezzi di costume»!
La morte di Stalin, il più legato ai fatti correnti, è per Calvino
«pamphlettistico e un po' deludente dato il tema». Il confronto tra
i due scrittori, il ligure Calvino e il siciliano Sciascia, è
illuminante; ne resta testimonianza nella corrispondenza che i due
intrattennero per via della pubblicazione presso Einaudi delle opere
di Sciascia. Molte cose li univano, molte cose li separavano, sin da
quell'esordio nella collana di Vittorini.
Il nocciolo duro di
Sciascia è la dimostrazione che poi spiega anche quell'originale
connubio di saggismo e narrazione che attraversa la sua opera.
In un'intervista del
1970, nel momento in cui si è affermato come scrittore con la
pubblicazione di Il giorno della civetta (1961) e A
ciascuno il suo (1966), dichiara: «Le cose che scrivo partono
sempre da un'idea e si svolgono su uno schema. Voglio dimostrare
qualcosa servendomi della rappresentazione di un fatto immaginato o
inventato; e dico inventato nel senso di trovato: trovato nella
storia e nella cronaca. Il fatto in partenza è un pretesto e un
modo». Questa intenzione è forse ciò che non piace a Calvino,
allora alla ricerca di una «naturalezza» esaurita dopo l'esordio
giovanile; mentre Le parecchie di Regalpetra nascono da
un'esperienza diretta, dall'urgenza di raccontare il proprio
ambiente, e insieme dalla commissione di un editore, i racconti de
Gli zii di Sicilia, tre piccoli romanzi in potenza, cui si
aggiunge nel 1961 un romanzo incompiuto, L'antimonio,
contengono già la vena «dimostrativa» di Sciascia, anche se il
racconto è decantato insieme a tante letture (Brancati, Pirandello,
Nievo, Hemingway).
E' ancora uno Sciascia
aurorale a contrapporre al saggismo narrativo delle Parrocchie
la narrazione vera e propria, in attesa di passare alla narrazione
saggistica, dove riverserà la sua vena più autentica di moralista.
Riletto oggi, Gli zii di Sicilia appare un libro ricco di
grande freschezza, persino di naturalezza, anche se si sente che
tutto questo deriva dai buoni modelli scelti dall'autore e dal suo
desiderio di essere vero narratore, costruttore di storie. Proprio
ciò che gli nega Calvino, implacabile con se stesso e gli altri.
Ma per ritornare a
quell'intervista del 1970 rilasciata a Walter Mauro, Sciascia
aggiunge un'osservazione importante: «Ogni mio libro vuole essere un
simple discours su cose maledettamente complicate; e la
semplicità viene al discorso dal fatto, dal racconto». In questa
breve proposizione si trova il segreto di Sciascia, della sua
complicata avventura narrativa partita tra romanzi, saggi, racconti,
pamphlet, commedie, poesie, articoli, cronache, libri e raccolte
tanto difficili da catalogare: per lui narrare significa amplificare,
ricondurre al simple discours la complicazione dell'esistenza.
Ma detto così non è ancora chiaro.
Come sa ogni lettore
fedele dello scrittore siciliano, tutti i suoi libri non spiegano
nulla, non concludono niente, non arrivano a un capo qualsiasi; il
lettore si trova nella condizione di un nuotatore che non riesce mai
a toccare riva, eppure non la perde mai di vista. Voglio dire: la
premessa, la dimostrazione, è evidente sin dall'esordio e anche il
fatto narrato sembra svolgersi con una semplicità evidente, eppure
niente si conclude; subito il punto d'arrivo si sposta e la
complicazione prende il sopravvento, una complicazione che è
custodita prima di tutto in quel lessico, duro come una noce, ispido
come un porcospino, in quel fraseggio che si chiude su di sé come un
costrutto latino che ti scodella il suo segreto nel colpo di coda
della clausola.
Dietro a questa
scrittura, dietro al racconto che viene dall'esempio, dietro a questa
grande retorica del pensare, fatta di luoghi e regioni, di congetture
e riflessioni, di sistemi e statuti, c'è un intero continente
geografico e storico, album insondabile che a volte affiora come
noterella erudita, a volte come giallo poliziesco, a volte come
reportage storico, a volte ancora come corsivo inquieto e
implacabile. Questo è ciò che distanzia un narratore intimamente
siciliano come Sciascia dal ligure piemontese Calvino, cui pure non
difetta la matrice illuminista è il piacere del ragionamento.
Ma com'è, o vuol essere,
cristallino il ragionamento di Italo Calvino, tanto è imprevedibile
nella sua chiusa quello di Leonardo Sciascia (eppure le conclusioni
sono tutte contenute nelle premesse). Anche alcuni dei libri che
Calvino scrive negli anni '60 sono a dimostrazione, primo fra tutti
il suo capolavoro politico, La giornata di uno scrutatore, che
chiude il ciclo impegnato della sua narrativa. La differenza tra loro
è sancita dalla bella metafora che il siciliano conia per spiegare a
Walter Mauro il suo modo di procedere: "Si capisce che nel
momento in cui, dopo lunga preparazione e riflessione, comincio a
scrivere, l'esempio, il fatto, il racconto mi prende completamente ed
è come materia fusa che viene allo stampo. E non sarà magari
un'opera perfetta: si sarà verificata qualche bolla, ci sarà
qualche vuoto o qualche svenatura, ma sempre dentro lo stampo».
Materia fusa e stampo. Ma se la materia fusa è l'esempio, il fatto,
allora cosa sarà lo stampo? Calvino, con grande finezza, l'aveva
capito. Dopo aver letto la commedia L'onorevole, gli scrive
nel 1964 la sua «critica», dove conclude marcando l'illuminismo di
entrambi, dubitando sul suo e sottolineando l'illuminismo civile
dell'amico siciliano; ma al tempo stesso evidenzia come sotto i
pilastri dell'illuminismo di Sciascia ci siano una serie di potenti
cariche esplosive (sotto le sue, dice Calvino, ci sono più
modestamente «poveri fuochi d'artificio»). Sono «le polveri
tragico-barocco-grottesche» che Sciascia ha accumulato e che lui
spera di veder saltare in avvenire, in un'esplosione che mandi
all'aria la sua levigatezza compositiva: «Vorrei finalmente vedere
in faccia il tuo demone; sentire la sua vera voce».
Ma Calvino si sbagliava,
la materia fusa dei fatti e degli esempi poteva assumere una forma
proprio grazie a quello stampo tragico, barocco e grottesco, che si
manifesta prima di tutto nella prosa di Sciascia, uno stampo niente
affatto semplice, dentro cui la complicazione dei fatti diviene
apparente semplicità del discorso e limpida forma del racconto. Lo
stampo è la sintassi a clausola, su cui s'incardina una struttura
narrativa ed espositiva sempre ben calibrata ed elegante. Sciascia,
proprio in virtù della sua dimostrazione, è uno dei pochi narratori
italiani che ha posto grande attenzione ai «modi» del racconto; e
senza cadere mai prigioniero degli sperimentalismi, ha
sperimentato innumerevoli possibilità per mettere in forma i
propri pensieri.
La sua lunga fedeltà ai
modi della sua prosa, al suo stile, alla sua maniera, è sancita da
una continua dedizione a quello stampo, cui non rinuncia mai, anzi a
partire da Il contesto (1971). vero punto di svolta del suo
discorso sulla società e la politica italiana, lo approfondisce
sempre più in libri che sembrano riportarlo alle sue origini, a
quelle Parrocchie di Regalpetra, scettiche, impietose,
documentate e intrise di tanta letteratura da apparire secche come un
chiodo, paratattiche, come scrisse allora Pasolini, a fronte di un
modo ipotattico di pensieri che attendeva ogni volta di trovare il
proprio stampo.
“il manifesto”, 17
luglio 1992
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