Tour 1959. Lo scalatore lussemburghese Charly Gaul e, dietro di lui, appena visibile, lo spagnolo Federico Martin Bahamontes. Il primo odiava i Pirenei, l'altro li amava |
Il Tour de France è la
Grande Boucle, il grande ricciolo, perché il suo percorso,
almeno per un cinquantennio, disegnava un boccolo di strade
all'interno del territorio francese. Da Parigi a Parigi lungo le
regioni esterne della Francia. A fare da sfondo alle pedalate dei
ciclisti il mare per buona parte, blande colline e tanta pianura, poi
da 1905, i Vosgi, teatro delle prime fughe, alture renane che
entreranno nella storia più per la Grande Guerra che per meriti
ciclistici.
La storia, quella vera,
si è scritta altrove, lì dove la periferia si fa montagna. A
sud-est le Alpi, le prime a essere affrontate nel 1907, con il Col
de Porte, 1326 metri sul livello del mare, ora nulla più di
un antipasto, un tempo portata principale. A sud-ovest i Pirenei,
scoperti nel 1910, arrivati a noi invece quasi intatti.
Alpi e Pirenei non sono
solo catene montuose, sono qualcosa di più, due modi di intendere la
salita, il Tour, la fatica. Due modi di vincere o di
arrendersi alla montagna. Sono diversi, distanti, non solo
geograficamente, anche umanamente. Sono mondi paralleli, universi
differenti, uniti solamente dall'amore per la bicicletta, loro
malgrado.
Le Alpi sono maestose e
regali, montagne nobili, ricche, in modo parsimonioso se resiste in
loro la dignità montanara, eccessivo e un po' kitsch se è il mondo
cittadino ad averle conquistate e sedotte.
I Pirenei «sono per lo
più montagne povere e ci fa più caldo, naturalmente», scrisse
Gianni Mura nel 1991, perché «solo le montagne ricche godono di
ventilazione apprezzabile». Sono verdi certo, ma di un verde smunto,
dal quale escono costoni terrigni, ocra, slavato e secco. Niente a
che vedere con il rosaceo delle Dolomiti, niente a che vedere con i
toni brillanti di grigio delle altre Alpi. Sorelle per origini, ma
figlie di un Dio diverso.
Lo si vede guardandole,
lo si capisce leggendone i nomi. Serre Chavalier, Col de la
Madeleine, Galibier, Izoard, Col du Glandon. Le Alpi sono epica fatta
toponomastica. Rimandi a un mondo antico di eroi, santi e cavalieri
erranti, un poema divenuto montagna. Sono letteratura, chanson de
geste. I Pirenei al massimo d'appendice o di genere, giallo. Non per
il Tour, per il mistero. Tourmalet, Peyresour-de, Aubisque e
Hautacam. Nomi buoni per Maigret, sgraziati, che incutono timore.
I francesi le Alpi le
dividono con noi, dalla nostra parte il versante duro, scosceso,
dalla loro quello più dolce, gentile. Ringrazia per questo chi la
montagna la vive, storcono il naso invece gli amanti del ciclismo,
perché più la strada è ripida, più gli scalatori si esaltano. Da
un lato le lunghe salite, infinite, dall'altro la pendenza che divora
i muscoli.
I Pirenei invece li
dividono con gli spagnoli. Ma qui non c'è dolcezza da nessun lato.
Lo scenario è lo stesso, la strada sale ed è un patema ovunque. Non
è la pendenza il problema, o almeno non solo. I dati che solitamente
i commentatori di ciclismo guardano per decretare la difficoltà di
una salita lasciano il tempo che trovano quando si parla di Pirenei.
Il loro mistero, la loro bellezza sta altrove. Nel caldo, asfissiante
d'estate, nell'asfalto, che quando batte il sole si liquefa, diventa
colla che si attacca alle scarpe e ai pneumatici. Nella pioggia, che
quando scende diventa bufera e inonda l'asfalto, nel vento, che non
c'è mai, ma quando arriva impera e abbatte tutto e tutti.
Salite che sono inferno,
luoghi inospitali, poco vissuti e frequentati. Affascinanti e
fascinosi, ma luoghi non per tutti.Alpi e Pirenei dividono scalatori
e giornalisti in due fazioni. C'è chi come Bahamontes, corridore
spagnolo tra gli anni 50 e 60 e vincitore del Tour del 1959, amava i
Pirenei, ma vinceva sulle Alpi. Riuscì solo due volte a primeggiare
al confine con la Spagna ed entrambe le volte pianse dalla gioia.
Accadde nel 1958 dopo Aspin e Peyresourde e nel 1964 dopo
Peyresourde, Aspin, Tourmalet e Aubisque e in quell'occasione fu
tripudio, sia di gente, che personale. Si accasciò sulla bicicletta,
l'abbracciò e a chi gli chiedeva perché piangesse rispose «perché
finalmente ce l'ho fatta, sono riuscito a vincere sulle montagne più
belle del mondo».
Bahamontes l'Aquila di
Toledo volava, Charly Gaul l'Angelo della Montagna ascendeva. Stessi
anni, rivali, ma opposti. Bahamontes spinto dalla fame, Gaul
dall'ambizione, l'uno matto e scostante, l'altro pure, ma per vezzo,
non per follia. Il lussemburghese, vincitore nel Tour del 1958,
vinceva sulle Alpi, come lo spagnolo, ma detestava i Pirenei,
«montagne rozze, stupide e infami». Parole d'orgoglio ferito, dette
da chi non è mai riuscito a domarli. Sui Pirenei faceva la
differenza Bottecchia per difendersi poi sulle Alpi, volava Testa di
vetro Robic, impazziva José Manuel Fuente perché «le Alpi sono per
i bravi, i Pirenei per i duri».
Vincenzo Nibali sui Pirenei. Nel Tour 2014 ha vinto su tutte le montagne: Vosgi, Alpi e, appunto, Pirenei |
I nostri, da Bartali a
Pantani, invece sulle Alpi volavano e le amavano, sarà per
prossimità territoriale, sarà per clima, sarà per gusto, sarà per
lo scenario. Gino i Pirenei li soffriva nonostante fosse grimpeur
vero, Coppi non li amava, perché agli scatti preferiva il ritmo,
perché alle azioni sui pedali preferiva le cavalcate solitarie,
chiappe sulla sella e via a macinar rapporto. Come Gimondi. Per
Gastone Nencini, vincitore del Tour del I960, invece non c'erano
differenze, lui gestiva, guardava gli avversari, infine decideva
quando attaccare. Il luogo non contava, a lui interessava la
sostanza.
Salite, amor di scalatori
e di tifosi, amor degli scrittori. Tutti le aspettano, pronti a
essere testimoni d'imprese. Ma l'amore è sentimento che impone
preferenze. C'è chi si espone, chi cova passioni private, chi non sa
scegliere perché ciclismo è emozione universale. Per il poeta
Alfonso Gatto «i Pirenei non hanno nulla da dire ai tecnici ma,
dalla prima stagione che Desgrange portò la corsa quassù, essi
parlano e continuano a parlare al cuore dei poeti». Per Jacques
Prévert invece «sono le Alpi il cuore del Tour, lì «novelli
Davide cercano di accecare la maestà di Golia». In salita, sui
pedali. Galibier da un lato, Tourmalet dall'altro. Anima e
antonomasia.
Chi li scoprì entrambi,
Henri Desgrange, direttore dell'Auto e del Tour, non aveva dubbi: «Oh
Col de Bayard (passo alpino), oh Tourmalet, rispetto al Galibier voi
non siete che pallido e volgare vinaccio». Parola dell'inventore che
ripudia la propria prima opera. «Vinaccio un corno, giù le mani dal
Tourmalet. Basta guardare in su: il Tourmalet si spoglia
progressivamente di vegetazione e si veste di uomini piccoli e
colorati, che segnano l'arrampicata verso il cielo, uno zig-zag da
stordimento, e in cima un circo di roccia viva in un azzurro che
prende alla gola». Parola di Gianni Mura.
A ognuno la libertà di decidere da che parte stare.
"Pagina99", 12 luglio 2014
A ognuno la libertà di decidere da che parte stare.
"Pagina99", 12 luglio 2014
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