Con
l’ascesa al potere della destra nazionalista, nel Paese si è
riaperto il dibattito sulla contrapposizione tra “valori asiatici”
e “occidentali”. Secondo la scrittrice Nilanjana Roy l'asianesimo
nasconde minacce contro le minoranze etnico-religiose, le
donne e i diritti civili. Riprendo da “Repubblica” l'articolo che
il quotidiano italiano ha ripreso e tradotto dal “NewYork Times”.
(S.L.L.)
NEW DELHI – Di
tutte le schede utilizzate nelle scuole indiane come sussidio
didattico quella del Bambino ideale è stata l’incubo della mia
generazione. Il Bambino Ideale si alzava e si lavava i denti con
cura, salutava i genitori, diceva la preghiera, arrivava a tavola
puntuale, aiutava, faceva le commissioni e, cosa che lasciava più
perplessi, accompagnava «i bambini smarriti al posto di polizia».
Il Bambino Ideale
incarnava determinati valori indiani e, nonostante l’aria innocua,
nei suoi lineamenti abbozzati, identificabili con il classico aspetto
degli indù e degli indiani del nord, e nella sua espressione di
compiaciuta santità c’era qualcosa che terrorizzava la mia mente
infantile. Ora che sono adulta e che in India la destra è tornata al
potere capisco il perché di quel senso di nausea. Era un
presentimento, la sensazione che si potesse fare appello a valori
indiani tradizionali, altrimenti indiscutibili, come il rispetto per
la propria famiglia, l’obbedienza agli anziani, la modestia
femminile, al fine di emarginare o reprimere determinati gruppi.
Il nuovo governo del
Bharatiya Janata Party pare deciso a ispirarsi all’Asia sotto il
profilo politico e culturale. Il primo ministro Narendra Modi si
propone come figura autorevole – addirittura autoritaria – in
linea con l’ideale regionale dell’uomo forte. Ha sempre curato i
contatti con le sue controparti. Ha in calendario visite ufficiali in
Bhutan e in Giappone e il ministro degli Esteri cinese ha appena
concluso il suo viaggio in India.
L’approccio di Modi non
è frutto semplicemente di una scelta personale, ma specchio di un
più ampio mutamento in corso in India, soprattutto tra i politici e
gli intellettuali di destra, alla ricerca di un insieme di norme
culturali asiatiche condivise che possano aiutarli a
creare e rafforzare un nuovo senso di identità indiana.
Negli Anni ‘90 l’ex
primo ministro di Singapore, Lee Kuan Yew, scatenò un aspro
dibattito ponendo un distinguo tra libertà occidentali da un lato e,
dall’altro, la visione asiatica dell’armonia dell’esistenza, in
cui i diritti individuali possono essere sospesi per il bene comune.
In India, il dibattito sui ‘valori asiatici’ portò tra l’altro
a discutere sullo sviluppo e a tentativi di screditare gli
ambientalisti, accusati di farsi troppo influenzare dall’Occidente.
Le problematiche sono le
stesse ora come allora. L’economista amartya sen nel 1997 si
chiedeva: «Quali possono essere considerati i valori di una regione
così estesa e così eterogenea?». Appellarsi all’identità
indiana o asiatica in un paese o in una regione così plurale spesso
diventa un pretesto per la maggioranza per tacitare molte minoranze.
Sen si chiedeva anche perché mai i “concetti occidentali”
dovessero essere considerati per principio «in qualche modo estranei
all’Asia».
Qualche settimana fa i
media indiani hanno divulgato un rapporto dell’intelligence
sull’influsso esercitato dalle ong. Tra l’altro il rapporto
conclude che molte ong locali, alcune finanziate da «donatori con
sede negli Usa, Regno Unito, Germania, Olanda e paesi scandinavi»,
avevano utilizzato «argomenti incentrati sulle persone» per
bloccare i progetti di sviluppo. Il rapporto sostiene inoltre che
l’operato delle ong è in parte «funzionale agli interessi
strategici di politica estera» dei governi occidentali.
Questo linguaggio rigido
e burocratico non è solo una peculiarità dell’intelligence,
ma rivelatore di un atteggiamento di sospetto nei confronti
dell’occidente e della cultura dei diritti umani come opera
occidentale, atteggiamento diffuso in India tra politici e
imprenditori e, a dire il vero, tra molta gente comune.
Tutti i grandi casi di
stupro ad esempio hanno recentemente scatenato una reazione bellicosa
nei confronti delle vittime, spesso espressa in termini che pongono
l’India in opposizione all’Occidente.
Il 7 giugno S.
Gurumurthy, uno dei massimi ideologi dell’organizzazione di estrema
destra Rashtriya Swayamsevak Sangh, ha sollevato un piccolo vespaio
con un tweet: «Se le donne indiane si occidentalizzeranno gli
stupri aumenteranno di 50/60 volte, portandosi ai livelli
occidentali, ma la stampa tacerà e non ci sarà alcun intervento
delle Nazioni Unite». Nei successivi tweet ha spiegato cosa intende
per occidentalizzazione: «individualismo sfrenato che
distrugge i rapporti e le famiglie».
Oggi si tira in ballo
l’influenza nefasta dell’occidente non solo per motivare la
violenza sessuale sulle donne, ma anche per spiegare perché la
cultura indiana è in pericolo, perché bisognerebbe censurare gli
artisti e perché chi mette in discussione i costi dello sviluppo è
“contro la nazione”. In altri termini il dibattito sui valori
riapertosi in India è già diventato un pretesto per attaccare i
diritti civili e politici.
A suo tempo Sen aveva
sostenuto che «i cosiddetti valori asiatici a cui si fa appello per
giustificare l’autoritarismo non sono prettamente asiatici in alcun
senso significativo». Il suo fu un saggio tentativo di superare
inguaribili dicotomie. Ma faceva appello alla razionalità e
ultimamente la razionalità è un valore che non sembra troppo
indiano.
“la Repubblica”,
27/6/2014
da “The New York Times”
traduzione Emilia Benghi
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