Si può dire che
Machiavelli e Guicciardini fossero due amici? Oppure ha più forza la
tradizione critica che li contrappone e li considera, se non due
antagonisti, certo due personaggi collocati a due poli estremi? Forse
è più giusto dire che si tratta di due personaggi che si conobbero
bene, si frequentarono, stimarono e influenzarono reciprocamente, che
furono, nella vita privata «amici», e in quella intellettuale due
pensatori che dialogarono intensamente anche se non in modo
appariscente, ma che poi sono stati chiamati dalla storia, dalle
ricostruzioni e dagli schemi degli storici, a rappresentare due
personificazioni diverse e contrastanti, quasi polemicamente
«nemiche», di una stessa temperie culturale e politica.
A stabilire l'idea della
«coppia», ma anche di una coppia costituita da personalità
polarmente contrapposte, hanno contribuito energicamente le pagine
della Storia della letteratura italiana di Francesco De
Sanctis: pagine importanti e significative, fondamentali per
l'interpretazione data da De Sanctis del Rinascimento italiano, che
però hanno consegnato alla tradizione dei nostri studi una
schematizzazione notevolmente irrigidita e un giudizio sui due
maggiori nostri scrittori politici del Cinquecento fortemente
influenzato dalle idee e dalle passioni del periodo risorgimentale.
(Per di più, quando De Sanctis scriveva, si ignoravano ancora molti
degli scritti di Guicciardini e non era stata ricostruita in dettagli
la storia dei rapporti diretti di amicizia che aveva legato i due
personaggi).
Secondo De Sanctis,
Machiavelli e Guicciardini, di fronte alla crisi politica e morale
dell'Italia del primo cinquecento, reagirono in modo diverso e
rivelarono una diversa tempra: Machiavelli, lucidissimo, visse la
crisi ma non la subì, anzi la analizzò e studiò allo scopo di
combatterla; Guicciardini, anche lui fornito di una finissima
conoscenza degli uomini e delle cose, reagì con scetticismo e
sfiducia, e un'amara disposizione ad accettare l'inevitabile corso
delle cose. Diversi certo i due lo erano, anche fisicamente.
Machiavelli, aveva il viso affilato, le labbra sottili e ironiche,
gli occhi neri penetranti e arguti: l'immagine che ci è trasmessa da
un ritratto di Santi di Tito, che si trova a Firenze in Palazzo
Vecchio e si vede riprodotta su enciclopedie e libri, lascia
l'impressione di una figura segaligna, di una personalità viva,
affascinante, ironica e sfuggente. Guicciardini aveva il corpo
massiccio e sostenuto, il collo largo e taurino, i lineamenti solidi
e marcati. Nel ritratto di Giuliano Bugiardini, che si trova nella
raccolta di famiglia ma è stato divulgato, appare in veste
ufficiale, fra pellicce e velluti, quale doveva essere: severo,
laconico, riservato, orgoglioso del suo casato e delle sue capacità,
disposto ad aprirsi solo a pochi intimi.
Diversi erano i due
certamente per età, essendo Guicciardini di 14 anni più giovane;
diversi per estrazione sociale, essendo Machiavelli di famiglia non
prominente e Guicciardini di famiglia appartenente alla più
ristretta e potente oligarchia ottimatizia; diversi per formazione
(segretario e destinato a una carriera negli uffici Machiavelli,
dottore in diritto civile e destinato a una prestigiosa carriera di
ambasciatore e servitore di Firenze o del Papa Guicciardini); diversi
per inclinazioni ideologiche e metodo di pensiero (portato alle
grandi affermazioni teoriche, basate sulla storia e l'esperienza,
Machiavelli, sospettoso di ogni generalizzazione, attento alla
concretezza minuta dei fatti e alla molteplicità delle prospettive
Guicciardini).
La diversità sta
stampata anche sulle buste delle lettere che i due cominciarono a
scambiarsi, nel 1521, quando Guicciardini era governatore papale a
Modena e Machiavelli inviato da Firenze a svolgere una missione
diplomatica, chiaramente al di sotto delle sue aspirazioni e abilità
politiche e forse con qualche intenzione di ironia, presso il
litigioso Capitolo generale dei frati minori. Mentre Guicciardini si
rivolge «Al magnifico messer Niccolo Machiavelli nuntio fiorentino»,
Machiavelli si rivolge al suo corrispondente in aulico e cerimonioso
latino «Magnifico Domino Francisco de Guicciardini I.V. doctori
Mutinae Regiique gubernatori dignissimo suo plurimo». E mentre
Guicciardini iniziava con un «Machiavello carissimo», Machiavelli
rispondeva con un «Magnifice vir, major observandissime». E
tuttavia, nello scambio immediato della lettera (cosi come, possiamo
intuire, negli scambi verbali) i due trovarono subito un territorio
di intesa, complicità e familiarità (quindi di amicizia): il
linguaggio comico, l'aneddotica maliziosa ed erotica, della
trasformazione scherzosa di sé e degli altri, a sfogar l'umor nero e
le non poche meditazioni pensose e preoccupate sulle vicende
politiche e militari di Firenze e d'Italia.
Guicciardini. divertito
dell'incarico «religioso» dato a Machiavelli, trovava che averlo
scelto per tale bisogna era come l'aver attribuito interessi muliebri
a due noti sodomiti fiorentini: «non altrimento che se a
Pacchierotto, mentre viveva, fosse stato dato il carico, o a ser
Sano, di trovare una bella et galante moglie a uno amico».
Machiavelli rispondeva per le rime e, subito dopo l'invocazione
rispettosa al «Magnifice vir», scriveva: «Io ero in sul cello
quando arrivò il vostro messo, et appunto pensavo alle stravaganze
di questo mondo», e proiettava la situazione (quella di dover
spingere i frati minori a scegliere per Firenze un loro predicatore)
in una possibile novella boccaccesca o in una trama da Mandragola:
«eglino vorrieno un predicatore che insegnasse loro la via del
Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di
andare a casa del diavolo; vorrebbono appresso che fosse huomo
produente, intero, reale, et io ne vorrei trovare uno più pazzo che
il Ponzo, più versuto che fra Girolamo, più ippocrito che frate
Alberto». (Ma intanto, fra le espressioni scherzose, riusciva a
infilare qualche riflessione amare sulla sua situazione di cervello
fino politico sottimpiegato).
Il terreno di incontro
così fissato fra Machiavelli e Guicciardini - quello della
espressività linguistica, della narrazione novellistica, della
trascrizione comica e teatrale - diede l'occasione, in quei
frangenti, alla costituzione di un piccolo e straordinario carteggio
(pari a quello su un'uguale intesa «comica» fra Machiavelli e
l'ambasciatore fiorentino Francesco Vettori). Ha detto bene Giorgio
Inglese, curatore di una bella edizioncina, nella Bur, delle Lettere
di Machiavelli e Francesco Vettori e Francesco Guicciardini: «La
ricchezza di queste pagine epistolari sta tutta nel conflitto che
subito si apre - e sarà sapientemente giocato da entrambi gli
interlocutori - tra la cifra 'comica' e il patrimonio di serietà che
i protagonisti espongono al rischio calcolato della vanificazione».
La verità è che il
terreno comune di incontro (e di amicizia e collaborazione) va ben
oltre la complicità comica e narrativa di episodi come quello di
Carpi. Gli studi hanno pian piano ricostruito il rapporto fra
Machiavelli e Guicciardini, e hanno dimostrato che i due avevano non
poche opinioni in comune, che si frequentarono a lungo, portarono
avanti un impegnativo dialogo intellettuale, si influenzarono a
vicenda. Qualche studioso ha insistito sull'influsso esercitato da
Machiavelli sul più giovane Guicciardini, e ha parlato di
Guicciardini come «del primo dei machiavellisti». I lettori si sono
scaltriti e trovati più volte a cogliere, nelle pagine distese della
Storia d'Italia o in quelle concentrate dei Ricordi
degli improvvisi e guizzanti momenti machiavelliani; così come hanno
di molto problematizzato la coerenza ideologica e di pensiero di
Machiavelli e colto qua e là, nelle lettere, in alcune pagine delle
Storie fiorentine, perfino dei Discorsi, dei momenti di
indugio analitico guicciardiniano.
Effettivamente
Machiavelli e Guicciardini impararono a conoscersi presto ed ebbero
qualche frequentazione già nel periodo dell'impiego di Machiavelli
nella segreteria soderiniana (quando Guicciardini era, giovanissimo,
ambasciatore della Repubblica in Spagna). Il primo pensiero politico
di Guicciardini e le sue prime prove di storico furono tuttavia del
tutto indipendenti dalle prove parallele di Machiavelli. Quando,
però, Machiavelli scrisse il Principe e i Discorsi,
pur non essendo destinati alla diffusione, Guicciardini li ebbe molto
presto fra le mani, le studiò e discusse, ne tenne conto nello
scrivere (in particolare i due discorsi su Come assicurare lo
stato ai Medici e il dialogo Del reggimento di Firenze),
iniziò anzi a scrivere, attorno al 1529, le Considerazioni
intorno ai Discorsi di Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio,
un'opera rimasta frammentaria, interessante per l'analisi e il
continuo contraddittorio delle idee di Machiavelli, talvolta noiosa e
arida.
Basta la reciproca stima,
l'attenzione alla carriera e ai pensieri dell'altro, la costruzione
di un'intesa «comica» per le serate insieme e le lettere spedite
sulla spinta dell'umore, per poter parlare di «amicizia»? Forse non
basta, ma a rafforzare il rapporto fra Machiavelli e Guicciardini ci
fu un dialogo intellettuale che fu molto più sottile e profondo di
quanto si creda, anche in scritti non dichiaratamente dedicati al
confronto sistematico delle posizioni. L'opera stessa di storico di
Guicciardini sarebbe stata probabilmente diversa se non ci fosse
stato, a ispirarne molti atteggiamenti e posizioni l'opera di teorico
e di storico di Machiavelli.
il manifesto, 31 agosto 1990
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