Raccontando l'infanzia di
Ulrich - il protagonista , dell'Uomo senza qualità - Musil
osserva che l'Austria era l'unico posto al mondo in cui fosse
difficile conquistare i bambini al patriottismo. Già lo studio della
storia insegnava al giovane suddito absburgico la diffidenza, poiché
se era vero «che gli Austriaci avevano vinto tutte le guerre della
loro storia», era anche vero che dopo ogni guerra avevano
perso qualcosa.
La considerazione
musiliana - lungi dal contenere un apprezzamento della tollerante
superiorità con cui la dinastia regnante si privava, da vincitrice,
dei suoi tenitori - si conclude ricordando come lo stesso Ulrich; per
aver svolto pensieri simili a questo in un tema sull'amor di patria,
fosse stato allontanato dal prestigioso ginnasio viennese che
frequentava e spedito in un piccolo collegio belga dove, anziché
ravvedersi, aveva imparato a «estendere intenzionalmente la mancanza
di riguardi nei confronti degli ideali altrui». L'intellettuale
austriaco cresciuto alla fine dell'era absburgica è animato - come
Ulrich - da un radicale scetticismo e, se guarda indietro alla storia
dell'impero sovranazionale che gli ha fatto da patria, lo fa spesso
solo per prenderne le distanze o rivelarne - magari ironicamente - i
guasti più profondi. Quando il primo conflitto mondiale costringerà
i maggiori intellettuali austriaci a confrontarsi con l'humus
sociale e politico dell'impero austro-ungarico, il conflitto
risulterà evidente e lascerà spazio a un duttile amore per il
'paesaggio' austriaco, cioè per quanto sussisteva indipendentemente
dall'ottusa arretratezza della gestione imperiale. Divedrà peculiare
a buona parte della cultura viennese quell'atteggiamento che Arthur
Schnitzler, già nel 1904, aveva fissato in un aforisma: «Io amo la
mia patria non perché è la mia patria, ma perché la trovo bella.
Ho senso della patria, non sono un patriota».
È anche a partire da
questo diffidente atteggiamento nei confronti dei valori tradizionali
dello Stato e della corona che prende corpo - dopo lo scoppio della
guerra - la reazione degli intellettuali austriaci all'eredità
absburgica. E, all'esasperata condanna del militarismo austriaco e
del conflitto mondiale che Schnitzler avrebbe consegnato ai propri
diari e aforismi privati, avrebbe ben presto fatto seguito la
denuncia pubblica e violentissima del fallimento ultimo della
monarchia danubiana con gli Ultimi giorni dell'umanità di
Karl Kraus: il dramma apocalittico di un ideale imperiale apparso un
tempo come il difensore di una politica umanisticamente illuminata e
divenuto poi concausa delle peggiori atrocità belliche. Il moralismo
krausiano - più o meno accettato che fosse dai singoli
rappresentanti della cultura austriaca contemporanea - sembra segnare
oggi il limite oltre cui il 'mito absburgico' non potè più
continuare a essere l'aureo punto di riferimento della letteratura
austroungherese. Il mito dello stato paternalistico e sovranazionale
- delineato nella sua versione letteraria dal profilo di Claudio
Magris - sopravvisse, è vero, nelle elegiache epopee di Roth o di
Werfel, ma riaffiorò nelle opere di Musil, Kafka o Kraus posteriori
al 1914 solo come riminiscenza negativa, minata a priori dal
catastrofico esito bellico e dai suoi malanni endemici. Il mito
absburgico non fu forse mai un mito politico, ma certamente dopo la
guerra non riuscì più ad essere nemmeno un mito letterario. In non
poche opere si rimpiansero, è vero, singoli aspetti del vecchio
impero (lo stesso Uomo senza qualità è di ciò un esempio
eminente), ma di rado la monarchia danubiana fu rivalutata nel suo
complesso. Anche i suoi più nostalgici cantori postumi ne
smascherarono anzi le goffaggini burocratiche e le arretratezze.
Addirittura, la periferica letteratura praghese di lingua tedesca -
ora oggetto di rinnovato interesse - fu propensa a sottolineare gli
aspetti oppressivi e degenerati del potere absburgico, tanto che vien
quasi da chiedersi fino a che punto le regioni estreme dell'impero
accolsero il crollo del potere centrale e delle sue stanchissime
vestigja come una catastrofe. A leggere le opere di scrittori
praghesi come Natonek o Vischer, vittime involontarie della
corruzione o del militarismo austriaco, si potrebbe pensare che quel
crollo rappresentasse piuttosto una liberazione.
Naturalmente, a voler
riaprire la questione del peso effettivo che il mito absburgico giocò
nella narrativa austriaca ancora dopo la fine del primo confitto
mondiale, si dovrebbero operare distinzioni ben più sottili di
quelle qui tentate. Certo è che il mito stesso, che domina
incontrastato nel XIX secolo, diviene oggetto, in quello successivo,
delle più sottili, penetranti e ironiche critiche, e all'indomani
della scomparsa di quell'impero che lo aveva ispirato,
l'intellettuale austriaco diviene maestro nel mancare di rispetto
«agli ideali altrui».
Mentre studi
specialistici e specifici tracciano con sempre maggior frequenza un
quadro differenziatissimo della civiltà danubiana e tracciano linee
di confine, rivedono posizioni superate o aprono lo sguardo su
prospettive nuove e nuove scoperte, si diffonde in modo crescente e
capillare una sorta di 'vulgata' del mito absburgico, che spesso
sorvola sulla tragedia che a quel mito pose fine e crede di poter
risuscitare nostalgie francogiuseppine, confondendo la tramontata
Austria felix ottocentesca con l'interesse che ispira oggi,
invece, la critica di essa e della sua decadenza. Si confondono
insomma, in un solo calderone, Kraus o Musil e l'Austria di Maria
Teresa e si apprezza magari il concerto di Capodanno dei Filarmonici
di Vienna più che per l'ottima musica per il gusto, che si pretende
intramontabile, delle decorazioni e degli aristocratici signori
seduti in platea. A questa versione minore e confusionaria del mito
absburgico si può replicare sulla falsariga di una delle più belle
commedie di Hugo von Hofmannsthal, L'uomo difficile. In essa
uno degli scrittori austriaci più legati al 'mondo di ieri'
tracciava, nel 1920, l'affresco di un universo aristocratico ancora
intatto nelle sue apparenze e sopravvissuto a se stesso, ma
concludeva il suo pezzo con un clamoroso scandalo che faceva saltare
ogni tradizionale regola e 'buona maniera' e poi ancora con un
patetico tentativo di salvare almeno le forme: perché del vecchio
impero può ben sopravvivere una vuota maschera, a patto che essa
copra qualcosa di nuovo e, magari, di scandaloso, giacché i vecchi
contenuti - dopo quel che hanno provocato - non è bene che tornino.
Da L'ipotesi asburgica
“latalpagiovedì” supplemento al “manifesto”, 23 novembre
1989
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