24.7.14

Felix Austria. Il mito del mito (Luca Crescenzi)

Raccontando l'infanzia di Ulrich - il protagonista , dell'Uomo senza qualità - Musil osserva che l'Austria era l'unico posto al mondo in cui fosse difficile conquistare i bambini al patriottismo. Già lo studio della storia insegnava al giovane suddito absburgico la diffidenza, poiché se era vero «che gli Austriaci avevano vinto tutte le guerre della loro storia», era anche vero che dopo ogni guerra avevano perso qualcosa.
La considerazione musiliana - lungi dal contenere un apprezzamento della tollerante superiorità con cui la dinastia regnante si privava, da vincitrice, dei suoi tenitori - si conclude ricordando come lo stesso Ulrich; per aver svolto pensieri simili a questo in un tema sull'amor di patria, fosse stato allontanato dal prestigioso ginnasio viennese che frequentava e spedito in un piccolo collegio belga dove, anziché ravvedersi, aveva imparato a «estendere intenzionalmente la mancanza di riguardi nei confronti degli ideali altrui». L'intellettuale austriaco cresciuto alla fine dell'era absburgica è animato - come Ulrich - da un radicale scetticismo e, se guarda indietro alla storia dell'impero sovranazionale che gli ha fatto da patria, lo fa spesso solo per prenderne le distanze o rivelarne - magari ironicamente - i guasti più profondi. Quando il primo conflitto mondiale costringerà i maggiori intellettuali austriaci a confrontarsi con l'humus sociale e politico dell'impero austro-ungarico, il conflitto risulterà evidente e lascerà spazio a un duttile amore per il 'paesaggio' austriaco, cioè per quanto sussisteva indipendentemente dall'ottusa arretratezza della gestione imperiale. Divedrà peculiare a buona parte della cultura viennese quell'atteggiamento che Arthur Schnitzler, già nel 1904, aveva fissato in un aforisma: «Io amo la mia patria non perché è la mia patria, ma perché la trovo bella. Ho senso della patria, non sono un patriota».
È anche a partire da questo diffidente atteggiamento nei confronti dei valori tradizionali dello Stato e della corona che prende corpo - dopo lo scoppio della guerra - la reazione degli intellettuali austriaci all'eredità absburgica. E, all'esasperata condanna del militarismo austriaco e del conflitto mondiale che Schnitzler avrebbe consegnato ai propri diari e aforismi privati, avrebbe ben presto fatto seguito la denuncia pubblica e violentissima del fallimento ultimo della monarchia danubiana con gli Ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus: il dramma apocalittico di un ideale imperiale apparso un tempo come il difensore di una politica umanisticamente illuminata e divenuto poi concausa delle peggiori atrocità belliche. Il moralismo krausiano - più o meno accettato che fosse dai singoli rappresentanti della cultura austriaca contemporanea - sembra segnare oggi il limite oltre cui il 'mito absburgico' non potè più continuare a essere l'aureo punto di riferimento della letteratura austroungherese. Il mito dello stato paternalistico e sovranazionale - delineato nella sua versione letteraria dal profilo di Claudio Magris - sopravvisse, è vero, nelle elegiache epopee di Roth o di Werfel, ma riaffiorò nelle opere di Musil, Kafka o Kraus posteriori al 1914 solo come riminiscenza negativa, minata a priori dal catastrofico esito bellico e dai suoi malanni endemici. Il mito absburgico non fu forse mai un mito politico, ma certamente dopo la guerra non riuscì più ad essere nemmeno un mito letterario. In non poche opere si rimpiansero, è vero, singoli aspetti del vecchio impero (lo stesso Uomo senza qualità è di ciò un esempio eminente), ma di rado la monarchia danubiana fu rivalutata nel suo complesso. Anche i suoi più nostalgici cantori postumi ne smascherarono anzi le goffaggini burocratiche e le arretratezze. Addirittura, la periferica letteratura praghese di lingua tedesca - ora oggetto di rinnovato interesse - fu propensa a sottolineare gli aspetti oppressivi e degenerati del potere absburgico, tanto che vien quasi da chiedersi fino a che punto le regioni estreme dell'impero accolsero il crollo del potere centrale e delle sue stanchissime vestigja come una catastrofe. A leggere le opere di scrittori praghesi come Natonek o Vischer, vittime involontarie della corruzione o del militarismo austriaco, si potrebbe pensare che quel crollo rappresentasse piuttosto una liberazione.
Naturalmente, a voler riaprire la questione del peso effettivo che il mito absburgico giocò nella narrativa austriaca ancora dopo la fine del primo confitto mondiale, si dovrebbero operare distinzioni ben più sottili di quelle qui tentate. Certo è che il mito stesso, che domina incontrastato nel XIX secolo, diviene oggetto, in quello successivo, delle più sottili, penetranti e ironiche critiche, e all'indomani della scomparsa di quell'impero che lo aveva ispirato, l'intellettuale austriaco diviene maestro nel mancare di rispetto «agli ideali altrui».
Mentre studi specialistici e specifici tracciano con sempre maggior frequenza un quadro differenziatissimo della civiltà danubiana e tracciano linee di confine, rivedono posizioni superate o aprono lo sguardo su prospettive nuove e nuove scoperte, si diffonde in modo crescente e capillare una sorta di 'vulgata' del mito absburgico, che spesso sorvola sulla tragedia che a quel mito pose fine e crede di poter risuscitare nostalgie francogiuseppine, confondendo la tramontata Austria felix ottocentesca con l'interesse che ispira oggi, invece, la critica di essa e della sua decadenza. Si confondono insomma, in un solo calderone, Kraus o Musil e l'Austria di Maria Teresa e si apprezza magari il concerto di Capodanno dei Filarmonici di Vienna più che per l'ottima musica per il gusto, che si pretende intramontabile, delle decorazioni e degli aristocratici signori seduti in platea. A questa versione minore e confusionaria del mito absburgico si può replicare sulla falsariga di una delle più belle commedie di Hugo von Hofmannsthal, L'uomo difficile. In essa uno degli scrittori austriaci più legati al 'mondo di ieri' tracciava, nel 1920, l'affresco di un universo aristocratico ancora intatto nelle sue apparenze e sopravvissuto a se stesso, ma concludeva il suo pezzo con un clamoroso scandalo che faceva saltare ogni tradizionale regola e 'buona maniera' e poi ancora con un patetico tentativo di salvare almeno le forme: perché del vecchio impero può ben sopravvivere una vuota maschera, a patto che essa copra qualcosa di nuovo e, magari, di scandaloso, giacché i vecchi contenuti - dopo quel che hanno provocato - non è bene che tornino.


Da L'ipotesi asburgica “latalpagiovedì” supplemento al “manifesto”, 23 novembre 1989

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