Anni Trenta del 900. Il podestà di Ferrara Renzo Ravenna con la moglie |
Chissà se Renzo Ravenna
e Giovanni Preziosi ebbero mai occasione di incrociare da vicino le
loro vite. Due esistenze, le loro, che rievocate recentemente in due
libri documentati e stimolanti - l'interessante biografia di Ilaria
Pavan, Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo
e leggi razziali, edito da Laterza, e l'ampio saggio di Romano
Canosa, A caccia di ebrei. Mussolini, Preziosi e l'antisemitismo
fascista, pubblicato da Mondadori - appaiono più diagonali che
speculari. Né la petulanza polemica né la virulenza della sua
ossessione razzistica riescono a fare di Giovanni Preziosi qualcosa
di più di uno sbilenco comprimario incastonato nella storia del
nostro Novecento. Ravenna ha invece dalla sua la «simpatia umana che
suscita il personaggio-uomo prima che il personaggio storico», come
giustamente sottolinea Alberto Cavaglion nella postfazione al volume
della Pavan. La parabola politica di Ravenna è presto detta:
proveniente da un'importante famiglia della comunità ebraica di
Ferrara, è interventista, combattente della «grande guerra»,
avvocato. Nel dopoguerra, pur esplicitamente su posizioni moderate,
non partecipa a quella vera e propria operazione militare,
punteggiata da scontri sanguinosi e distruzioni, con cui il leader
del fascismo ferrarese, Italo Balbo, conquista le roccheforti
socialiste e repubblicane in Romagna. Renzo Ravenna è fortemente
legato a Balbo, non solo da un'amicizia che risale agli anni
dell'infanzia e che nulla riuscirà a scalfire (neppure le leggi
razziali) ma, anche, dall'esplicito interventismo. Non a caso hanno
fondato assieme, in città, con l'apporto di sindacalisti
rivoluzionari, di socialisti interventisti, di repubblicani e di
anticlericali, il gruppo più deciso nell'invocare l'entrata in
guerra.
Italo Balbo, quando nei
primi Anni Venti si troverà in grave difficoltà, nella sua Ferrara,
per l'assassinio del parroco antifascista don Giovanni Minzoni da
parte degli squadristi locali, si rivolgerà proprio a Renzo Ravenna,
peraltro neppure iscritto al fascio, chiedendogli di prendere le
redini della federazione fascista. Compito di Ravenna sarà epurare
gli estremisti, rassicurando con la sua presenza l'opinione pubblica
moderata, sempre più allarmata dal dilagare di uno squadrismo che,
nonostante l'ascesa al potere di Mussolini, continua con violenze e
illegalità. Il giovane avvocato, poco più che trentenne, accetta
così di gestire una situazione difficilissima che, tra l'altro, si
colloca proprio nel tempestoso periodo della crisi determinata
dall'omicidio di Matteotti. Successivamente Balbo lo vorrà a Roma
come stretto collaboratore nei suoi incarichi nazionali, ma nel 1926
Renzo, aderendo ai desideri della moglie Lucia, sceglie di operare
solo a Ferrara: e qui, per ben dodici anni, sino alle leggi razziali,
è podestà della città.
Sarà un pubblico
amministratore onesto ed equilibrato anche se, dopo la guerra, il suo
concittadino Giorgio Bassani, nel racconto Una lapide in via
Mozzini, ne darà - rivestendolo del nome di Geremia Tabet - un
duro e sarcastico ritratto: «Quel vecchio fascista dell'avvocato
Geremia Tabet talmente benemerito del Regime da riuscire per almeno
due anni, dopo il 1938, a continuare a frequentare di tanto in tanto
anche il Circolo dei Negozianti».
La caduta di Renzo
Ravenna inizia quando, alla vigilia delle leggi razziali, deve
dimettersi da podestà. L'uscita dall'incarico è motivata
ipocritamente da ragioni di salute, ma Balbo non mancherà di dare
plateali segni di solidarietà verso l'amico rimosso. L'ex podestà,
sino al 1943, vive in una situazione simile a quella di altri ebrei
«discriminati», ovvero colpiti dalle leggi razziali in forma
attenuata, per i loro meriti patriottici o politici.
Fa bene Cayaglion, nella
sua postfazione, a insistere sulla pietas che deve avvolgere
questo capitolo penoso della nostra storia nazionale, che vede le
vittime di un provvedimento infame riconoscere ancora autorevolezza e
tributare segni di stima e sottomissione (come dimostrano molte
lettere a Mussolini) a coloro che sono e saranno i loro carnefici.
Anche Ravenna sembra non rendersi conto del pericolo che incombe su
di lui e sui suoi, sino alla fine del settembre '43, quando,
finalmente, fuggirà rocambolescamente in Svizzera con la moglie e i
figli, mentre i suoi fratelli e le sue sorelle finiranno nelle mani
dei nazisti che li deporteranno - quasi tutti - nei lager, dove
saranno sterminati.
Dopo questa cupa
apocalisse riemerge, indomabile, la testarda volontà di Renzo
Ravenna di tornare, finita la guerra, nella stessa città dove è
stato podestà fascista, meravigliandosi per l'ostilità di molti e
non comprendendo le riserve di altri. In questo c'è tutta la
complessa e al tempo stesso semplice filigrana di un uomo - morto in
pace con tutti nel 1961, a Ferrara - che viene illuminato nelle
pagine di Ilaria Pavan da una luce equilibrata, densa di spunti e
ricca di sensibilità.
Segnato da un
irreparabile cupio dissolvi, non ha certo questa forza e
intensità il tragitto esistenziale di Giovanni Preziosi: e ben lo sa
rendere Romano Canosa nel saggio dedicato all'ex prete, nato nel 1881
e diventato sin dalla vigilia della Grande guerra un portavoce
dell'antisemitismo. Un ruolo cresciuto dentro il regime fascista sino
all'ascesa, durante la RSI, all'incarico di ministro di Stato e di
ispettore generale per la razza. In questo ruolo Preziosi vive la sua
brevissima stagione di gloria: viene ricevuto da Hitler e diventa
intimo di Mussolini. Si tratta solo di pochi mesi, che si concludono
quando, nei giorni della Liberazione, braccato dai partigiani,
Preziosi mette fine ai suoi giorni, assieme alla moglie.
Nelle due ricostruzioni,
della Pavan e di Canosa, non c'è traccia di sovrapposizione diretta
tra i tragitti esistenziali dei due, anche se il leitmotiv antisemita
che Preziosi per decenni era andato sviluppando - nei suoi libri,
nelle riviste (“La vita italiana”) e nei quotidiani (“Il
Mezzogiorno”) da lui diretti - troverà il proprio coronamento
nelle leggi razziali del '38 che distruggeranno il mondo
apparentemente sereno del podestà Ravenna. Ma a irrobustire e
avvelenare sempre più questi umori antisemiti, distillati decennio
dopo decennio, avevano concorso in molti, poi scomparsi dalla scena o
mimetizzati sotto nuove bandiere. Tutti in sintonia con l'ossessivo
ritornello, seminatore di odio, di Preziosi.
"Tuttolibri - La Stampa", 10 giugno 2006
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