Sul finire del 1999 uscì
per Bollati-Boringhieri il libro di Mimmo Franzinelli, I tentacoli
dell'OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica
fascista, cui nel 2001 fece seguito Delatori, dello stesso
autore per Mondadori. Tema centrale di entrambi i libri era la
“delazione”, soprattutto in epoca fascista. Ne venne fuori
un'immagine degli italiani assai diversa da quelle della storiografia
autoassolutoria. Nonostante il discreto clamore suscitato
l'indicazione della ricerca di Franzinelli non venne molto seguita,
almeno dalla storiografia accademica, con una importante eccezione,
tuttavia relativa a un caso particolare, il libro di Biocca su
Ignazio Silone e i suoi rapporti con la polizia politica fascista,
anche se non sono mancati studi significativi su archivi di stato
locali (a Perugia quelle di Andrea Maori). Franzinelli ha continuato
ad occuparsi di temi scabrosi della storia italiana recente: va
ricordato un importante volume sulle stragi naziste impunite e
occultate nei cosiddetti “armadi della vergogna”. L'intervista
qui ripresa, pubblicata su “L'Espresso” nel 2000, dà conto dei
risultati della ricerca sui delatori e avanza qualche ipotesi
interpretativa. (S.L.L.)
Hitler e Mussolini a Roma nel 1938 visitano un Dopolavoro. Con i due, a sinistra ,il capo della polizia Arturo Bocchini |
Quanti sono stati gli
ebrei italiani denunciati alla polizia fascista dal conoscente della
porta accanto, dal collega che li aveva frequentati per anni?
Migliaia. Quanti gli antifascisti e i semplici scontenti o
mugugnatori arrestati in base alle spiate? Centinaia di migliaia. Il
fenomeno ripugnante della delazione che ha dilagato nell'Italia
mussoliniana - con particolare virulenza negli anni della guerra -
non è mai stato seriamente preso in considerazione dai nostri
storici e ricercatori. Contrariamente a quanto è avvenuto in paesi
come la Francia e la Germania, il tema della delazione non è stato
dibattuto, né veramente affrontato in letteratura. Eppure si è
trattato di un bubbone vistoso. Ma la nostra coscienza nazionale,
cattolica e autoassolutoria, ha preferito esorcizzarlo. I nostri
intellettuali, non celebri per il loro coraggio, lo hanno quasi
ignorato: salvo rare eccezioni, come quella del traditore-assassino
del romanzo di Alberto Moravia Il Conformista" (ripreso
nell'omonimo film di Bernardo Bertolucci).
Certo, l'argomento non è
piacevole. Pone problemi scomodi e dolorosi, specie in quest'epoca di
conciliazione e rimozione, in cui le asprezze della storia tendono a
essere banalizzate e sfumate. Ma, come ha detto Gunter Grass parlando
del nazismo, «i mostri del passato possono essere lasciati alle
spalle solo dopo averli conosciuti, esposti senza pudore e digeriti».
In Francia esistono numerosi studi storici sul tema (La délation
sous l'Occupation di Andre Halimi; La France des muochards
di Sébastien Fontenelle; La dénonciation di Jean Francois
Gayraud), mentre vari
romanzi di uno degli
scrittori di maggior valore, Patrick Modiano, sono intrisi del
problema e film come Lacombe Lucien e Au revoir les enfants
di Louis Malie lo hanno portato al grande pubblico.
In Italia, a parte
qualche ricerca sulle denunce contro gli ebrei, l'unico ad aver
cominciato ad affrontare il delicato argomento è lo storico Mimmo
Franzinelli, che ha recentemente pubblicato il corposo volume I
tentacoli dell'Ovra (Bollati Boringhieri). E sta lavorando a un
"manuale del delatore" (sul caso della "spia del
regime", Carlo del Re), nonché a una ricognizione più vasta,
sul tema "tradimento e delazione dal Risorgimento alla
Repubblica".
Fondo di sorprese
Franzinelli, come mai
si è dedicato allo studio della delazione?
«Mi sono reso conto che
nell'analisi delle dinamiche del fascismo mancava un tassello
fondamentale: quello della lotta contro le opposizioni condotta
sotterraneamente dalla polizia politica del regime. Ho cominciato a
occuparmi dell'argomento nell'ambito di uno studio sugli apparati
statali mussoliniani e sul rapporto tra il mondo cattolico e quello
militare. Mi sono così imbattuto in moltissimi casi di delazione,
spiate, doppiogiochismi. E, poco a poco, ho scoperto che esiste una
massa di documentazione inesplorata enorme».
Dove si trova questo
materiale?
«Molto nell'Archivio
centrale dello Stato a Roma: dove c'è la preziosa raccolta del Fondo
Offese al Duce che raduna un'infinita varietà di rapporti di
polizia e carabinieri. Ma anche negli archivi periferici provinciali.
Si tratta di una mole davvero impressionante di documenti che aspetta
di essere studiata. Ed è importante non solo per la valutazione
dell'operato dell'Ovra e delle altre polizie contro l'opposizione
politica, ma soprattutto per svelare il controllo sociale capillare
messo in atto dal regime. Venivano registrati, e spesso duramente
puniti, anche i semplici mormorii embrionali di disapprovazione e
protesta, di cui giungeva notizia attraverso le delazioni».
L'analisi di tale
documentazione può fornire un arricchimento storiografico rilevante?
«Direi proprio di sì.
Da vari punti di vista. Viene fuori l'immagine di una miseria morale
desolante. La figura retorica, autopromossa, del "buon italiano"
va a pezzi. Emerge la disponibilità di tanti a tradire il vicino, il
conoscente, addirittura il parente: per rancore, per gelosia, per
carrierismo. È il caso dei vicini che denunciano le famiglie di
ebrei per prendergli la casa. Del professore che denuncia il collega
ed è lesto ad andare a coprire il suo posto. E anche degli
antifascisti che passano nascostamente dall'altra parte per praticare
la delazione».
Tu critichi, io ti
denuncio
Che ampiezza ha avuto
il fenomeno in Italia?
«Centinaia di migliaia
di delatori della porta accanto, cioè quelli occasionali, non
pagati. Oltre ai tanti infiltrati e ai delatori sistematici,
stipendiati regolarmente dalla polizia. Gli archivi contengono
montagne di lettere, biglietti, deposizioni verbalizzate che
documentano tale deprimente realtà. Per esempio, nel Fondo Offese
al Duce vi sono decine di migliaia di denunce anonime contro
persone che all'osteria avevano imprecato o fatto una battuta contro
Mussolini: la vittima della soffiata molto spesso veniva incarcerata
o spedita al confino. In alcuni casi su decisione di Mussolini stesso
(i documenti portano stampigliato "visto dal Duce") che ci
teneva a esaminare di persona buona parte di questo materiale».
Si sa quanti sono
stati i delatori al soldo delle polizie fasciste?
«Venne tentato di
censirli durante l'epurazione: si partì da più di diecimila nomi
sulla base degli elenchi dell'Ovra, della Divisione di Polizia
politica, della Milizia volontaria di sicurezza, delle questure... Ma
nel '46, l'Alto commissariato per i crimini del fascismo compilò una
lista "ufficiale" di appena 622 nomi. Una beffa che non è
mai stata chiarita. Anche perché gli elenchi originali vennero fatti
sparire».
Da chi?
«Una bella domanda. A
cui va ancora trovata risposta. Ritengo che tra il '45 e il '46 vi
furono delle trattative tra dirigenti governativi antifascisti, come
Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, ed ex capi di polizia, come Guido
Leto, per chiudere la faccenda. E il governo De Gasperi bloccò
tutto. Lasciar affiorare il vasto fenomeno spie-delatori voleva dire
avallare un'immagine da "guerra civile" di ciò che era
accaduto nel paese: e questo era in contraddizione con la retorica
resistenziale. Spesso anche i partigiani vollero nascondere dei casi
di tradimento e delazione da parte di gente del loro ambiente».
Credere, obbedire,
confidare
Quando e come venne
messa a punto la rete di delatori e il controllo poliziesco capillare
del fascismo?
«Mussolini impiegò 4 o
5 anni per perfezionare la struttura di controllo. Il salto decisivo
avvenne nel '27, dopo la nomina di Arturo Bocchini a capo della
polizia. A quel punto la delazione fu incentivata al massimo e
divenne una pratica burocratica d'ufficio. Tra l'altro venne emessa
una circolare che stabiliva che tutti i portieri, pena il
licenziamento, dovevano trasformarsi in confidenti della polizia.
Durante un primo periodo la rete di spie e delatori fu usata
soprattutto per colpire le opposizioni politiche. Ci furono casi
clamorosi. Carlo Del Re, per salvarsi dalla bancarotta fraudolenta,
tradì e fece finire in galera il nucleo centrale di Giustizia e
Libertà. Il doppiogiochista Alfredo Canali, anche lui di Giustizia e
Libertà, divenne confidente e denunciò molti compagni: morì
deportato in Germania e per molto tempo non venne ammesso il suo
ruolo di traditore. I filonazisti della banda Koch, durante il
periodo della resistenza romana, decimarono il Partito d'Azione
trasformando in delatori alcuni militanti: attraverso minacce,
torture feroci, promesse».
Ma vittime della
macchina delatorio-poliziesca non furono solo gli oppositori al
regime.
«Una volta scompaginate
le opposizioni politiche, l'obiettivo della rete divenne il
monitoraggio del polso dell'opinione pubblica, il controllo delle
mormorazioni popolari. Compito al quale Mussolini teneva molto. Venne
deciso di prendere in considerazione anche le denunce anonime. Non fu
risparmiato neanche l'ambiente ecclesiastico. Vi sono molte lettere
di preti e parroci che denunciano dei loro superiori: per invidia,
per vendetta personale... Addirittura contro il cardinale Ildefonso
Schuster e padre Agostino Gemelli, che erano noti filofascisti,
vennero scritti dall'interno della Chiesa numerosi messaggi delatori:
per qualche "critica a Mussolini", o quant'altro».
E
gli ebrei?
«Con le leggi razziali
del '38 le delazioni contro gli ebrei divennero massicce e si
moltiplicarono negli anni della guerra: e a quel punto denunciare un
ebreo voleva dire mandarlo a morte. È bene ricordarlo. D'altra
parte, va detto che il duce, pur usando i delatori su ampia scala, li
disprezzava: alcuni, come Del Re, chiesero di essere ricevuti, ma
Mussolini diede ordine di tenerli lontani».
Secondo lei, perché
il fenomeno della delazione è stato trascurato dai nostri studiosi e
rimosso dalla coscienza storica?
«Si tratta di un
argomento scomodo per tutti. Per la storiografia antifascista, perché
fa emergere un'opposizione poco coesa e infiltrata: per carità di
patria si è evitato di guardare a una brutta pagina. E scomodo,
ovviamente, pure per la storiografìa tradizionale,
retorico-patriottarda: viste le dimensioni del fenomeno, avrebbe
dovuto prendere atto che siamo stati anche un popolo di delatori.
Inoltre le peggiori caratteristiche di una certa morale cattolica
nostrana hanno aiutato a insabbiare tutto sotto il velo
dell'ipocrisia, della doppiezza, del pentimento indulgente. Una colpa
grave: perché, per poter essere superata, la storia deve essere
conosciuta».
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