Umberto Terracini |
Una intervista a Umberto Terracini su Bordiga, ove si dimostra come nell'analisi storica e politica non necessariamente il rigore politico e intellettuale diventi settarismo. (S.L.L.)
Amadeo Bordiga |
Umberto Terracini è uno
tra i non molti testimoni viventi dell'avventura umana e politica di
Amadeo Bordiga; ed è certamente uno dei pochissimi, fra essi, che a
quell'avventura abbia partecipato in veste di protagonista. Furono
infatti i bordighiani e il gruppo dell'Ordine Nuovo a dar vita, nel
1921, al Partito comunista d'Italia; e Terracini era appunto un
«ordinovista», anzi uno dei quattro fondatori della rivista
torinese (gli altri tre erano Granisci, Tasca e Togliatti).
Con Bordiga, Terracini
firmò quelle «Tesi di Roma sulla tattica» che riassumono la
sostanza stessa del bordighismo (il partito visto come
un'organizzazione fortemente centralizzata, unitaria, al riparo da
qualsiasi «contaminazione» con gli altri raggruppamenti politici).
Tesi che più tardi Granisci definirà come scolastiche e bizantine,
ravvisandovi una discutibile applicazione del metodo matematico alla
politica.
«Certo», dice
Terracini, «non bisogna dimenticare che la formazione culturale di
Bordiga era scientifica; e il metodo scientifico di per sé non
ammette accomodamenti. Per questo, probabilmente, Bordiga rimase
sempre intransigente nelle sue convinzioni, mai accettando di
sottoporle a un riesame ».
Osservo che, in un uomo
politico, la rigidezza è una qualità negativa. Terracini ne
conviene : « Sì, questo è il limite che Bordiga non seppe mai
sormontare ». Poi traccia un ritratto, pieno di simpatia e di
calore, dell'uomo: « Era buono, cordiale, sempre pronto a
sacrificarsi per i compagni. E tutti avvertivano la sua non comune
robustezza intellettuale e morale ».
Però Giorgio Amandola è
di parere diverso. Come lei sa, Amendola si è rifiutato di scrivere
la prefazione al saggio di Franco Livorsi su Bordiga, motivando il
proprio rifiuto con le «incredibili conseguenze» cui giunse la
«caduta» di Bordiga: prime fra tutte, il «compromesso con il
fascismo», che gli consentì di continuare i suoi lavori di
ingegneria a Ponza, e l'avere auspicato, durante la guerra, la
vittoria di Hitler contro la coalizione antifascista.
Terracini s'incupisce e
mormora qualche cosa a proposito di un «deplorevole e assurdo
andazzo». Poi, dopo una pausa : « Ma che conoscenza può avere
avuto Amendola di Bordiga? Sì, erano tutti e due napoletani, ma il
loro non fu che un incontro marginale. Senza dire che Amendola ha
conosciuto Bordiga soltanto dopo l'instaurazione del regime
fascista».
Ma l'accusa che gli muove
è precisamente quella di essere venuto a patti col fascismo.
«Guardi, io Bordiga l'ho
conosciuto a fondo e credo di poter negare anche soltanto una lontana
ipotesi di questo genere».
Pure, sembra accertato
che Bordiga si augurasse la vittoria nazista.
«Se è così», replica
Terracini, «non può averlo fatto che in sede dottrinaria. Capita,
quando si affrontano i problemi sul piano teorico, di giungere a
conclusioni che la coscienza morale rinnega. C'è un brano molto noto
di Marx, in cui è detto che la società socialista sarà possibile
solo quando il capitalismo avrà espresso al massimo grado le sue
capacità produttive. Evidentemente Bordiga — il quale conosceva
molto bene le opere di Marx — riteneva che una dittatura
capitalistica fosse in grado di sfruttare le risorse produttive del
sistema meglio di una democrazia, affrettando così l'avvento del
socialismo. Ma si trattava, ripeto, di una posizione puramente
teorica»
Facciamo un passo
indietro e torniamo al Bordiga degli inizi che nel 1921 fondava il
circolo “Carlo Marx”.
«Bordiga – dice
Terracini – fu il primo socialista a condannare in modo serio i
cedimenti del partito alle situazioni contingenti, insomma le sue
deviazioni socialdemocratiche. Bisogna ricordare che, nei primi due
decenni del secolo, il movimento operaio italiano si trovava nelle
mani dei riformisti: i quali, del resto, erano i soli culturalmente
preparati ad assolvere certe funzioni ».
Ma lei, senatore
Terracini, credo che fosse possibile una strategia alternativa a
quella riforma?
«Io credo che lo fosse
diventata dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Ma la scelta
del partito socialista, 'né aderire, né sabotare', svuotò il suo
stesso atteggiamento di opposizione alla guerra ».
E Bordiga?
«Nel convegno di Firenze
del 1917, Bordiga sostenne la tesi della mobilitazione delle masse
per sabotare la guerra».
Fu in quel convegno, se
ben ricordo, che Bordiga e Granisci si incontrarono per la prima
volta. Quali saranno, in seguito, i principali punti di dissenso fra
i due uomini?
«Bordiga, come lei sa,
era un astensionista, giudicava la partecipazione al Parlamento come
una forma di collaborazione al governo della società capitalistica.
Noi dell'Ordine Nuovo eravamo invece convinti che non si dovesse
rinunciare ad agire su un terreno che poteva anche dimostrarsi molto
utile al movimento dei lavoratori. A sua volta, Bordiga accusava gli
ordinovisti di operaismo: secondo lui i consigli di fabbrica
rinchiudevano la classe operaia nell'angusto ghetto dei suoi
interessi immediati, senza collegarli alla questione politica
generale, cioè alla rivoluzione».
Anche la concezione del
partito vi differenziava.
«Sì, per Bordiga il
partito era il centro di elaborazione ideologica della lotta
rivoluzionaria, mentre di questa elaborazione il proletariato era il
semplice destinatario. Per gli ordinovisti, viceversa, la classe
operaia era la matrice del pensiero non meno che dell'azione
rivoluzionaria».
Quando, con la scissione
di Livorno, nacque il partito comunista, Bordiga ne diventò subito
il capo effettivo. Perché proprio lui?
« Perché, come ho
detto, Bordiga era una figura popolare e amata nel partito,
specialmente tra i giovani. E perché la frazione astensionista, che
egli guidava, disponeva di una rete nazionale che diventò la base
del nuovo partito. Noi dell'Ordine Nuovo, invece, non avevamo mai
cercato di allargare il nostro respiro oltre Torino ».
Da principio, ci fu un
completo accordo fra i due gruppi?
« Sì, per due motivi.
Innanzitutto, l'Internazionale vedeva il nuovo partito come un tutto,
e per noi questo contava molto: infatti la nostra sola forza
consisteva nell'essere rappresentanti dell'Internazionale. In secondo
luogo, ci trovavamo nella necessità di caratterizzarci davanti ai
lavoratori, di chiarire che cosa eravamo e che cosa volevamo;
dovevamo fronteggiare la propaganda ostile dei socialisti, che ci
accusavano di avere indebolito, con la nostra scissione, il movimento
operaio. Accuse che trovavano ascolto nella classe lavoratrice.
Perciò, prima del 1924 l'attività del partito comunista fu più che
altro propagandistica: e su questo terreno non c'erano divergenze fra
noi ».
E quando cominciarono, le
divergenze?
«Quando il partito
cominciò a far politica. E le concezioni di Bordiga sulla "purezza"
si tradussero in posizioni politiche che Gramsci riteneva sbagliate.
Era già successo nel 1921, a proposito degli "Arditi del
popolo": una formazione popolare non legata ai partiti, sorta
per contrastare le squadre fasciste e nella quale molti militanti
comunisti erano spontaneamente affluiti. Ma l'Esecutivo comunista
minacciò severi provvedimenti contro di loro: i comunisti dovevano
inquadrarsi soltanto in formazioni militari del loro partito. Ora,
quella fu una decisione indubbiamente negativa; un movimento unitario
avrebbe forse raggiunto qualche risultato nella lotta al fascismo ».
Questa «ossessione di
purezza», in Bordiga, è anche alla base dei suoi dissensi con
l'Internazionale?
« Vede, una delle cause
del riflusso rivoluzionario in Europa era stata, secondo
l'Internazionale, la mancata conquista delle masse da parte
comunista. La sola azione propagandistica si era dunque rivelata
insufficiente; bisognava passare all'azione concreta, bisognava
difendere gli interessi immediati dei lavoratori. Di qui la tattica
del fronte unico con i socialisti. Ora, a noi comunisti italiani
questa tattica sembrò inaccettabile. Fino al giorno prima avevamo
accusato i socialisti di tradimento; che cosa avrebbero detto gli
operai del nostro voltafaccia? Fu in quella occasione che io mi
guadagnai tanta mala fama, discutendo del fronte unico con Lenin e
respingendo le sue tesi ».
E poi, che cosa avvenne?
«Che il partito
comunista italiano seguì per un certo tempo una linea contrastante
con quella dell'Internazionale. E per questo suo comportamento venne
condannato. Secondo Bordiga, era l'Internazionale a sbagliare.
Gramsci invece guardava all'Internazionale come a un punto di
riferimento decisivo; di qui il suo ripensamento e il suo progressivo
allontanamento da Bordiga».
Però Bordiga non fu
scomunicato.
«No. Soltanto più tardi
l'Internazionale divorerà i propri figli».
E all'interno del PC,
quando cominciò a indebolirsi la posizione di Bordiga?
« Quando, di fronte allo
sviluppo degli avvenimenti, certi processi vennero a maturazione.
Anche dopo la marcia su Roma, Bordiga continuò a pensare che non
c'era da cambiar nulla, che il partito doveva restare chiuso nella
sua "purezza". Così, quando la frazione
terzinternazionalista del Psi — con Serrati, Maffi e Riboldi —
confluì nel partito comunista, lui ne fu indignato. E dopo il
delitto Matteotti, respinse la tesi del-l'Antiparlamento. In tal modo
finì per isolarsi sempre di più. Nell'estate del 1925, il
conogresso di Lione lo vide in minoranza».
II 22 febbraio del 1926,
a Mosca, Bordiga ebbe un duro scontro con Stalin: contestò il
primato del partito russo nell'Internazionale e pose il problema del
socialismo in Urss. Già da qualche tempo, del resto, era stato
accusato di tendenze trozkiste. Che cosa ne pensa?
«Bordiga non era un
trozkista, ma certo era proprio Trozkij la personalità del partito
russo a lui più affine. E poiché Trozkij era il grande antagonista
di Stalin, o meglio, poiché Stalin aveva scelto Trozkij come
bersaglio, non mi stupisce che Bordiga attaccasse Stalin».
Senatore Terracini,
quando ha visto Bordiga per l'ultima volta?
«Nel 1970, poco prima
della sua morte. Bordiga aveva previsto per il 1975, al massimo per
il 1977, l'ultima grande crisi del capitalismo. In quella occasione
mi disse che le sue previsioni si stavano confermando, che si andava
delineando una crisi terribile. E ne sembrava molto soddisfatto».
“la Repubblica”, 29
maggio 1977
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