12.7.14

Terracini racconta Bordiga (Rosellina Balbi)

Umberto Terracini
Una intervista a Umberto Terracini su Bordiga, ove si dimostra come nell'analisi storica e politica non necessariamente il rigore politico e intellettuale diventi settarismo. (S.L.L.)
Amadeo Bordiga
Umberto Terracini è uno tra i non molti testimoni viventi dell'avventura umana e politica di Amadeo Bordiga; ed è certamente uno dei pochissimi, fra essi, che a quell'avventura abbia partecipato in veste di protagonista. Furono infatti i bordighiani e il gruppo dell'Ordine Nuovo a dar vita, nel 1921, al Partito comunista d'Italia; e Terracini era appunto un «ordinovista», anzi uno dei quattro fondatori della rivista torinese (gli altri tre erano Granisci, Tasca e Togliatti).
Con Bordiga, Terracini firmò quelle «Tesi di Roma sulla tattica» che riassumono la sostanza stessa del bordighismo (il partito visto come un'organizzazione fortemente centralizzata, unitaria, al riparo da qualsiasi «contaminazione» con gli altri raggruppamenti politici). Tesi che più tardi Granisci definirà come scolastiche e bizantine, ravvisandovi una discutibile applicazione del metodo matematico alla politica.
«Certo», dice Terracini, «non bisogna dimenticare che la formazione culturale di Bordiga era scientifica; e il metodo scientifico di per sé non ammette accomodamenti. Per questo, probabilmente, Bordiga rimase sempre intransigente nelle sue convinzioni, mai accettando di sottoporle a un riesame ».
Osservo che, in un uomo politico, la rigidezza è una qualità negativa. Terracini ne conviene : « Sì, questo è il limite che Bordiga non seppe mai sormontare ». Poi traccia un ritratto, pieno di simpatia e di calore, dell'uomo: « Era buono, cordiale, sempre pronto a sacrificarsi per i compagni. E tutti avvertivano la sua non comune robustezza intellettuale e morale ».
Però Giorgio Amandola è di parere diverso. Come lei sa, Amendola si è rifiutato di scrivere la prefazione al saggio di Franco Livorsi su Bordiga, motivando il proprio rifiuto con le «incredibili conseguenze» cui giunse la «caduta» di Bordiga: prime fra tutte, il «compromesso con il fascismo», che gli consentì di continuare i suoi lavori di ingegneria a Ponza, e l'avere auspicato, durante la guerra, la vittoria di Hitler contro la coalizione antifascista.
Terracini s'incupisce e mormora qualche cosa a proposito di un «deplorevole e assurdo andazzo». Poi, dopo una pausa : « Ma che conoscenza può avere avuto Amendola di Bordiga? Sì, erano tutti e due napoletani, ma il loro non fu che un incontro marginale. Senza dire che Amendola ha conosciuto Bordiga soltanto dopo l'instaurazione del regime fascista».
Ma l'accusa che gli muove è precisamente quella di essere venuto a patti col fascismo.
«Guardi, io Bordiga l'ho conosciuto a fondo e credo di poter negare anche soltanto una lontana ipotesi di questo genere».
Pure, sembra accertato che Bordiga si augurasse la vittoria nazista.
«Se è così», replica Terracini, «non può averlo fatto che in sede dottrinaria. Capita, quando si affrontano i problemi sul piano teorico, di giungere a conclusioni che la coscienza morale rinnega. C'è un brano molto noto di Marx, in cui è detto che la società socialista sarà possibile solo quando il capitalismo avrà espresso al massimo grado le sue capacità produttive. Evidentemente Bordiga — il quale conosceva molto bene le opere di Marx — riteneva che una dittatura capitalistica fosse in grado di sfruttare le risorse produttive del sistema meglio di una democrazia, affrettando così l'avvento del socialismo. Ma si trattava, ripeto, di una posizione puramente teorica»
Facciamo un passo indietro e torniamo al Bordiga degli inizi che nel 1921 fondava il circolo “Carlo Marx”.
«Bordiga – dice Terracini – fu il primo socialista a condannare in modo serio i cedimenti del partito alle situazioni contingenti, insomma le sue deviazioni socialdemocratiche. Bisogna ricordare che, nei primi due decenni del secolo, il movimento operaio italiano si trovava nelle mani dei riformisti: i quali, del resto, erano i soli culturalmente preparati ad assolvere certe funzioni ».
Ma lei, senatore Terracini, credo che fosse possibile una strategia alternativa a quella riforma?
«Io credo che lo fosse diventata dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Ma la scelta del partito socialista, 'né aderire, né sabotare', svuotò il suo stesso atteggiamento di opposizione alla guerra ».
E Bordiga?
«Nel convegno di Firenze del 1917, Bordiga sostenne la tesi della mobilitazione delle masse per sabotare la guerra».
Fu in quel convegno, se ben ricordo, che Bordiga e Granisci si incontrarono per la prima volta. Quali saranno, in seguito, i principali punti di dissenso fra i due uomini?
«Bordiga, come lei sa, era un astensionista, giudicava la partecipazione al Parlamento come una forma di collaborazione al governo della società capitalistica. Noi dell'Ordine Nuovo eravamo invece convinti che non si dovesse rinunciare ad agire su un terreno che poteva anche dimostrarsi molto utile al movimento dei lavoratori. A sua volta, Bordiga accusava gli ordinovisti di operaismo: secondo lui i consigli di fabbrica rinchiudevano la classe operaia nell'angusto ghetto dei suoi interessi immediati, senza collegarli alla questione politica generale, cioè alla rivoluzione».
Anche la concezione del partito vi differenziava.
«Sì, per Bordiga il partito era il centro di elaborazione ideologica della lotta rivoluzionaria, mentre di questa elaborazione il proletariato era il semplice destinatario. Per gli ordinovisti, viceversa, la classe operaia era la matrice del pensiero non meno che dell'azione rivoluzionaria».
Quando, con la scissione di Livorno, nacque il partito comunista, Bordiga ne diventò subito il capo effettivo. Perché proprio lui?
« Perché, come ho detto, Bordiga era una figura popolare e amata nel partito, specialmente tra i giovani. E perché la frazione astensionista, che egli guidava, disponeva di una rete nazionale che diventò la base del nuovo partito. Noi dell'Ordine Nuovo, invece, non avevamo mai cercato di allargare il nostro respiro oltre Torino ».
Da principio, ci fu un completo accordo fra i due gruppi?
« Sì, per due motivi. Innanzitutto, l'Internazionale vedeva il nuovo partito come un tutto, e per noi questo contava molto: infatti la nostra sola forza consisteva nell'essere rappresentanti dell'Internazionale. In secondo luogo, ci trovavamo nella necessità di caratterizzarci davanti ai lavoratori, di chiarire che cosa eravamo e che cosa volevamo; dovevamo fronteggiare la propaganda ostile dei socialisti, che ci accusavano di avere indebolito, con la nostra scissione, il movimento operaio. Accuse che trovavano ascolto nella classe lavoratrice. Perciò, prima del 1924 l'attività del partito comunista fu più che altro propagandistica: e su questo terreno non c'erano divergenze fra noi ».
E quando cominciarono, le divergenze?
«Quando il partito cominciò a far politica. E le concezioni di Bordiga sulla "purezza" si tradussero in posizioni politiche che Gramsci riteneva sbagliate. Era già successo nel 1921, a proposito degli "Arditi del popolo": una formazione popolare non legata ai partiti, sorta per contrastare le squadre fasciste e nella quale molti militanti comunisti erano spontaneamente affluiti. Ma l'Esecutivo comunista minacciò severi provvedimenti contro di loro: i comunisti dovevano inquadrarsi soltanto in formazioni militari del loro partito. Ora, quella fu una decisione indubbiamente negativa; un movimento unitario avrebbe forse raggiunto qualche risultato nella lotta al fascismo ».
Questa «ossessione di purezza», in Bordiga, è anche alla base dei suoi dissensi con l'Internazionale?
« Vede, una delle cause del riflusso rivoluzionario in Europa era stata, secondo l'Internazionale, la mancata conquista delle masse da parte comunista. La sola azione propagandistica si era dunque rivelata insufficiente; bisognava passare all'azione concreta, bisognava difendere gli interessi immediati dei lavoratori. Di qui la tattica del fronte unico con i socialisti. Ora, a noi comunisti italiani questa tattica sembrò inaccettabile. Fino al giorno prima avevamo accusato i socialisti di tradimento; che cosa avrebbero detto gli operai del nostro voltafaccia? Fu in quella occasione che io mi guadagnai tanta mala fama, discutendo del fronte unico con Lenin e respingendo le sue tesi ».
E poi, che cosa avvenne?
«Che il partito comunista italiano seguì per un certo tempo una linea contrastante con quella dell'Internazionale. E per questo suo comportamento venne condannato. Secondo Bordiga, era l'Internazionale a sbagliare. Gramsci invece guardava all'Internazionale come a un punto di riferimento decisivo; di qui il suo ripensamento e il suo progressivo allontanamento da Bordiga».
Però Bordiga non fu scomunicato.
«No. Soltanto più tardi l'Internazionale divorerà i propri figli».
E all'interno del PC, quando cominciò a indebolirsi la posizione di Bordiga?
« Quando, di fronte allo sviluppo degli avvenimenti, certi processi vennero a maturazione. Anche dopo la marcia su Roma, Bordiga continuò a pensare che non c'era da cambiar nulla, che il partito doveva restare chiuso nella sua "purezza". Così, quando la frazione terzinternazionalista del Psi — con Serrati, Maffi e Riboldi — confluì nel partito comunista, lui ne fu indignato. E dopo il delitto Matteotti, respinse la tesi del-l'Antiparlamento. In tal modo finì per isolarsi sempre di più. Nell'estate del 1925, il conogresso di Lione lo vide in minoranza».
II 22 febbraio del 1926, a Mosca, Bordiga ebbe un duro scontro con Stalin: contestò il primato del partito russo nell'Internazionale e pose il problema del socialismo in Urss. Già da qualche tempo, del resto, era stato accusato di tendenze trozkiste. Che cosa ne pensa?
«Bordiga non era un trozkista, ma certo era proprio Trozkij la personalità del partito russo a lui più affine. E poiché Trozkij era il grande antagonista di Stalin, o meglio, poiché Stalin aveva scelto Trozkij come bersaglio, non mi stupisce che Bordiga attaccasse Stalin».
Senatore Terracini, quando ha visto Bordiga per l'ultima volta?
«Nel 1970, poco prima della sua morte. Bordiga aveva previsto per il 1975, al massimo per il 1977, l'ultima grande crisi del capitalismo. In quella occasione mi disse che le sue previsioni si stavano confermando, che si andava delineando una crisi terribile. E ne sembrava molto soddisfatto».

“la Repubblica”, 29 maggio 1977

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