Lo scorso anno un gruppo
di vittime e di testimoni delle violenza alla scuola Diaz di Genova
in occasione del G8 del 2001, poté entrare dentro l'istituto,
parlando con preside e insegnanti, cosa che era stata impedita per
tutti i dodici anni precedenti. Quello che segue è l'articolo
scritto per “il manifesto” da Lorenzo Guadagnucci, del Comitato
Verità e Giustizia per Genova. La denuncia mi pare disgraziatamente
attuale anche quest'anno, perfino più dell'anno scorso: modifiche
costituzionali che renderanno il potere più opaco e incontrollabile
sono in cantiere e silenziamenti delle opposizioni. L'articolo
esprimeva nel finale alcune speranze, ma – come cantava un grande
genovese - “i sogni sono ancora sogni e l'avvenire è ormai quasi
passato”. (S.L.L.)
Genova, 22 luglio 2001. Un'immagine delle violenze alla scuola Diaz |
Sono entrato nella scuola
Diaz di Genova dodici anni e poche ore dopo esserne uscito in
barella, con i piedi in avanti, le braccia steccate alla meglio e due
ore di violenza e terrore alle spalle. Era la notte fra il 21 e il 22
luglio 2001. Ho rivisto la palestra nella quale dormivo e che fu lo
scenario di una barbarie che qualcuno ha definito «macelleria
messicana», ma che io preferisco qualificare come
«costituzionicidio», tali e tante furono le violazioni di quegli
articoli della Costituzione che tutelano i diritti fondamentali e
disciplinano i rapporti fra apparati e poteri dello stato.
L’assalto alla scuola
Diaz fu un insieme di violenza e di menzogna, di furore belluino e di
arroganza del potere. Un’arroganza che si è protratta fino ad oggi
e che non si è fermata nemmeno con le clamorose e definitive
sentenze della magistratura.
Con risultati che ben
conosciamo. Da un lato le carriere fatte dai dirigenti della polizia
di allora, dall’altro il disastro istituzionale (e umano) che va
sotto il nome di caso Shabalayeva: noi che siamo stati a Genova G8 ,
non ci siamo potuti permettere il lusso di stupirci di fronte allo
sgretolamento dei principi costituzionali avvenuto fra il Viminale e
Casal Palocco. Da anni denunciamo il marcio che alberga ai piani alti
della polizia e segnaliamo ai nostri concittadini quanto sia opaca,
ambigua, marcia anch’essa, la relazione fra apparati di sicurezza e
organi parlamentari e di governo. Perciò non ci stupiamo di fronte
ad abusi di potere così marchiani e non ci sorprende nemmeno la
disinvoltura con la quale si mente di fronte al parlamento e ai
cittadini. Tutto ciò è ormai una prassi.
Stamani, tornando nel
luogo che mi ha cambiato la vita, più che un moto d’emozione, ho
rivissuto un sentimento che mi ha ferito: l’umiliazione. Nella mia
memoria, la palestra era ben più larga di com’è veramente. Ma
dodici anni fa non ero un bambino, il mio senso delle proporzioni era
sballato per un’altra ragione. Subito dopo il pestaggio fui
costretto a passare da un lato all’altro della palestra, lungo il
lato corto, per obbedire all’indicazione dei poliziotti, che
pretesero di raccogliere tutti insieme, lungo una parete, i numerosi
feriti. Dovetti trascinarmi, letteralmente strisciando, da un angolo
all’altro: non riuscivo ad alzarmi, ero piegato dai colpi ricevuti,
grondavo sangue. Mi è tornata in mente una sensazione di allora:
mentre ero impegnato in quel semplice spostamento, mi facevo pena.
Ho rivissuto quei momenti
provando un senso profondo di ingiustizia. Ho pensato che
l’umiliazione fisica è uno strumento
di tortura: riduce la persona a nuda vita, la priva della sua
dignità. Sappiamo bene che la tortura non è mai rivolta solo alle
vittime dirette degli abusi: serve bensì a mandare un messaggio a
tutti, a quelli che non c’erano affinché sappiano che il potere
non ha riguardi, è forte, privo di scrupoli e che è meglio non
mettersi nella condizione di sperimentare quanto sia doloroso finire
sotto il suo pugno di ferro.
In tutti questi anni, se
non fosse stato per il lavoro di alcuni magistrati incorruttibili e
per il contributo dato dai testimoni e dai loro avvocati, quel
messaggio di intimidazione sarebbe stato pieno e forte, sia verso la
cittadinanza, specie quella socialmente e politicamente attiva, sia
verso chi lavora in polizia. Le maggiori forze politiche e il
parlamento nel suo insieme hanno mostrato nel corso degli anni la
totale incapacità di mettersi dalla parte giusta, quella dei
cittadini umiliati e vilipesi, quella dei diritti sanciti dalla
Costituzione. Hanno preferito confermare e forse rafforzare il patto
stretto coi potenti che controllano gli apparati rispetto all’avvio
di un’azione di verità e di giustizia, che avrebbe avuto un costo
reputato insopportabile: un ricambio profondo del personale di
comando, riforme legislative serie, la messa in discussione di
equilibri consolidatisi nel tempo.
L’incontro di stamani è
stato importante per noi che siamo tornati alla Diaz e per gli altri
che lo faranno in futuro, ma il suo senso profondo è probabilmente
un altro. Tante volte abbiamo detto e scritto che Genova G8 ha
rappresentato un punto di svolta nel percorso (non bello) della
nostra democrazia, ma Genova G8 - con tutto ciò che rappresenta - è
anche stato un argomento tabù per la politica come per i media.
Tant’è che sentenze clamorose come quelle per Diaz e Bolzaneto non
hanno avuto alcun effetto pratico sul piano politico e legislativo.
Siamo di fronte a una
rimozione. Una rimozione che a ben vedere è cominciata proprio alla
scuola Diaz. Per dodici anni è rimasta chiusa ai testimoni della
«notte dei manganelli» e la «notte dei manganelli» è stata un
argomento proibito per chi ha insegnato e studiato in quella scuola.
Fino a stamani attribuivo questa chiusura a una scelta perbenista e
poco saggia di qualche dirigente scolastico, ora mi dico che il
prolungato silenzio osservato all’interno di quella scuola su un
episodio tanto grave avvenuto fra le sua mura, è in realtà la
metafora di ciò che è avvenuto nel nostro paese.
Forse oggi qualcosa sta
cambiando. Stamani il preside Aldo Martinis e gli insegnanti presenti
al nostro incontro erano i più felici, direi quasi entusiasti,
dell’apertura ai testimoni finalmente avvenuta. Si è parlato di
prossimi incontri con gli studenti, di assemblee e letture sceniche.
Alla fine, mentre uscivo dal cortile, stavolta sulle mie gambe, ho
pensato (o forse ho sognato) che la nostra disastrata democrazia sarà
salvata – se sarà salvata – dagli studenti e dagli insegnanti di
buona volontà, da chi saprà con onestà e con libertà trasmettere
conoscenza e fare tesoro da ciò che si può imparare dagli errori
del passato.
“il manifesto”, 23
luglio 2013
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