Il poeta e libraio bolognese sul popolare personaggio inventato da Walt Disney, in occasione del cinquantenario dalla sua prima apparizione nei fumetti. (S.L.L.)
Questa intrusione in un
terreno che non tollera dilettantismo o improvvisazione può essere
giustificata per una volta tanto sia dalla ricorrenza curiosa sia da
un modesto ma convinto proposito di legare addosso a questa
ricorrenza due o tre constatazioni personali dipendenti da una
frequentazione giovanile perseguita poi con cauta perseveranza. Anche
se mi rendo conto che questa ricorrenza e questa occasione possono
(ma poi non lo sono) apparire frivole oppure di scarso interesse o
anche soltanto «basse»; e che le mie parole sono abbastanza
approssimate. Ma ho premesso di essere un dilettante, con qualche
spicciolo di privata malizia.
Il fatto: cade il
cinquantenario della nascita di un personaggio dei fumetti, e neanche
di un big, ma di un minore, che sta defilato nel corso del racconto
anche se spesso è presente; dunque di una spalla, sia pure sempre in
moto. Come uno di quei vecchi attori hollywoodiani che stanno
scomparendo uno per uno, alla Walter Brennan, per intenderci; che non
esplodono mai ma sono lì nei momenti più difficili, nei films più
importanti, con altrettante facce o divise diverse (e si riconoscono
subito dagli occhi, da come muovono la bocca, da una gestualità che
non si lascia mai saziare).
Così mi capita con
questo Pippo, il lungagnone amico di Topolino, che la consuetudine e
una lettura poco attenta vogliono sempre ciucciariello e pistolone;
o, spesso, ciuccio soltanto pernicioso. Spendo qualche parola per
cercare di cavarlo fuori, per un momento, dal piccolo brago in cui
sembra ritualmente conficcato, fra stupidi errori e stupide parole.
Dato che per me questo meschineddu è il solo personaggio dei
fumetti per cui abbia provato una tenerezza ilare ma anche
conflittuale; una tenerezza maligna ma anche stralunata, fatta di
piccole sorprese, piccole curiosità e di una certa complicità. Da
allora fino al «Topolino» del 24 gennaio, che ha in copertina lui,
travestito da indiano, con lancia e penne a fare ancora una volta il
buffone apriporta per il divo che si fa aspettare. E il divo divelto
è il topastro reaganiano dagli occhioni blu di nome Topolino che ho
con viva cordialità detestato; perché è sempre accompagnato da
qualcuno e da qualcosa, non è quasi mai solo di fronte agli
avvenimenti; con quegli occhi eternamente cifrati e smielati, simili
a quelli della nonna o della maestra severa (spalancati a dire
sorpresa, stretti stretti per la rabbia o il disappunto) a
sottolineare piuttosto lo sbaglio, l'errore, la riprovazione. Oppure
il sollievo della buona coscienza legato ad una azione giusta, da
bandiera americana. Infatti appare il topo e lo svolgimento del tema
è scontato. Come un Orlando dimidiato passerà fra draghi, foreste,
ladroni, guerre, fino alla conclusione felice nel migliore dei mondi
possibili.
Il nostro invece, quando
appare coi suoi piedoni da clown, sembra che stia catapultandosi per
rompere il vetro del mondo; o, più semplicemente, tutti i bicchieri
che sono in tavola. E come se fosse l'ombra di un aquilone già in
orbita si trascina dietro tutto l'imprevedibile, tutto l'improbabile,
in una sorta di balletto degli errori (non degli orrori)
contrappuntati da un sorriso gagliardo; un balletto mai rallentato o
incupito ma che perlopiù ha la leggerezza ironica e colorata di una
azione seguita in sogno; di un umore, di una storia della fantasia.
La sua gestualità
infatti, al fondo, è libera e scentratra, cioè svincolata
dell'obbligo di significare i sentimenti ufficiali. E un po' come un
Ariele bonaccione, squilibrato ma non squinternato, sul punto di
realizzare azioni reali con metodi impossibili, tutti inventati e di
una straordinaria e solo apparente inutilità. Il suo disinteresse
per le cose è totale, la sua partecipazione verso gli altri è senza
limiti. In altre parole: la sua dedizione è tanto disinteressata che
può apparire quasi inutile.
Mentre nel gruppo dei
personaggi «animali» sembra il più approssimato e il più
arretrato (il più maldestro, il meno affidabile) egli ha una
gestualità di una levità quasi surreale. Il suo corpaccio lievita
senza mai opprimere la scena. Sempre proteso in avanti, con un
ginocchio almeno sollevato, ci partecipa la promessa di un movimento
aereo che lo distacchi da terra e lo liberi o lo sganci, con ironia,
dalla oppressione della propria altezza.
Tenderebbe a volersi
adeguare all'amico importante, al topo protagonista; ma mentre
Topolino sembra che si disponga sempre a salire sopra un tavolo, ad
alzarsi da terra, per riacquistare un qualche privilegio delle buone
intenzioni che la statura gli contesta, Pippo si protende verso il
basso solo per partecipare, per scherzare, per non acquietarsi. Per
dedicarsi in qualche modo, quasi per offrirsi. I suoi errori sono
tutti dentro alla speranza di fare bene; sono buone intenzioni del
cuore. E il rosso della gola è la parte più colorata del corpo.
Brucia come una piccola platea sulla quale ci si aspetterebbe la
recita di una minuscola commedia, una azione dentro a una azione
tutta da ridere o con qualche conclusiva tenerezza. Gli occhi sono
due grumi neri puntati contro il capezzolo del naso, nero anch'esso;
capezzolo rivolto all'insù mentre un tempo, proteso in avanti, gli
dava un'aria insieme un pochino più bamba e più perversa; mentre la
mano stesa e con il palmo a conca, è spesso nell'atto di chi aspetta
qualcosa che debba piovere dal cielo, imprevedibilmente.
Ma è soprattutto il suo
modo di camminare che dà il senso reale e sottile di una danza
leggera leggera, goduta da quel corpone dinoccolato, senza nodi. Da
questo saltimbanco non consumato dall'uso.
Non credo d'aver perso
tempo neanche in questa occasione, dato che difendere questi
personaggi minori ma più risentiti, più battaglieri, più liberi
dall'invadenza e dalla pressione degli stereotipi ufficiali tutta
patria e famiglia o tutta violenza massificata, mi sembra, in questo
angolo di mondo e in questo momento, anch'esso un atto necessario.
Convinto che non ci dobbiamo stancare di raccattare anche le briciole
per tornare a disporre tutto sul tavolo.
“l'Unità”, 6
febbraio 1982
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