Paula Philippson, nata in
Svezia nel 1874, fa parte di quella variegata categoria di
intellettuali che inventò lo studio moderno delle mitologie e dei
loro rapporti con la psiche. Medico, esercitò a lungo in Svizzera,
mentre i suoi frequenti viaggi in Grecia la indussero allo studio
della filologia classica. Un intelletto non dissimile da quello di
Freud e di Jung, padri della psicologia del profondo; una formazione
- quella dei medici a cavallo tra l'800 e il '900 - in cui
s'intrecciavano, fecondandosi reciprocamente, il pensiero scientifico
(pensiero indirizzato, secondo Jung) e quello creativo (pensiero per
immagini). Una forma di umanesimo scientifico (o di scienza in forma
umana) oggi molto rara. I saggi raccolti in questo Origini e forme
del mito greco vennero pubblicati tra il 1936 e il 1944 e
comparvero per la prima volta in Italia nel 1946, in quella
«Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici» curata da
Pavese e De Martino per Einaudi. Oggi Bollati Boringhieri li
ripropone (e già solo la loro ricomparsa costituisce un piccolo
evento culturale), arricchendoli di una introduzione di Federica
Montevecchi che ricostruisce le vicende del libro e quelle della
cosiddetta «Collana viola» di Einaudi. Ci viene così restituito
non solo un testo fondamentale sul mito greco, paragonabile a quelli
di Kerényi e di Otto, ma anche un importante spaccato del fermento
intellettuale, spesso conflittuale, degli anni del secondo
dopoguerra. I saggi - soprattutto i primi due, Il tempo nel mito
e La genealogia come forma mitica - ricostruiscono il
passaggio avvenuto nella civiltà greca da mythos - la
narrazione - a logos - il pensiero indirizzato - che condurrà
alla riflessione filosofica. Centro del racconto mitico è il
simbolo, «ciò che mette insieme», in cui la Philippson, come nota
acutamente Federica Montevecchi, intravede l'unire poli opposti come
il cosmo - l'ordine - e il caos attraverso «la relazione e la
complementarità, non l'assimilazione e il conseguente annullamento
di elementi diversi». Jung nel 1921, in Tipi psicologici,
parlando del simbolo ne sottolinea l'aspetto di vitalità (il
«simbolo vivo») indicando come esso, al contrario del segno, non
sia un mero indicatore di significato, ma come, proprio mantenendo la
tensione e la complementarità tra gli opposti - cosmo e caos, vita e
morte, maschile e femminile... - apra al senso più profondo e, in
ultimo, alla libertà. Un senso della vita e dell'universo che
ritroviamo nelle pagine della Philippson dedicate al tempo divino -
l'essere - e a quello umano - il divenire - e al concetto di kairòs,
l'incrocio tra questi due tempi: «La pienezza dell'essere racchiusa
in un istante senza durata». Quello che noi umili figli dei Greci
chiamiamo a volta a volta illumuiazione, insight, forse
felicità.
Di grande fascino sono i
capitoli dedicati alla mitologia della Tessaglia, regione che, in
grazia di un certo isolamento geografico, mantenne credenze e riti
dedicati a personaggi come Chirone, Peleo (il padre dell'eroe
Achille) e Thetis, che successivamente decadranno al rango di eroi,
di demoni teriomorfi e comunque di attori di secondo piano nel mondo
retto da Zeus. Le grandi divinità olimpiche - maschili come Zeus
stesso e femminili come Era - sarebbero, secondo la Philippson,
derivate dall'incontro tra la civiltà egea, di stampo matriarcale e
stanziale, e quella indoeuropea (se mai è esistita una tale unità
culturale), di tipo invece patriarcale e guerriero. Zeus, nelle sue
declinazioni di Poseidone e di Ade - l'invisibile - non sarebbe che
lo sposo della terra, mentre Artemide, Era, Demetra, sarebbero i
volti di Gaia stessa, unita al dio originario Poseidone, lo
scuotiterra. Ma questi sono particolari che possono interessare lo
specialista; tutto il libro, pur per alcuni versi datato, è invece
un esempio luminoso di una capacità di fare scienza attraverso
l'anima - caratteristica dei primi decenni del secolo scorso - che ci
appare oggi ingiustamente dimenticata a favore di un determinismo
sempre più estremo. Diceva ancora Jung che sarebbe necessario
liberarsi dalle proiezioni - i nostri filtri mentali - per vedere il
mondo nella sua realtà, e sicuramente gli scienziati e i filosofi
del '900 e di questo inizio di millennio ci hanno condotto molto
avanti in questa direzione. Ma lo psicologo svizzero aggiungeva anche
che senza proiezioni il mondo è privo di colori, grigio. Proprio
come ci appare questo nostro attuale, fisso nella luce, onnipotente e
senza ombre, dell'informazione totale. Un mondo dell'hybris.
“La Stampa –
Tuttolibri”, 10 giugno 2006
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