Appena trasferito in
Umbria, nel Liceo Scientifico annesso al Convitto Nazionale “Principe
di Napoli” di Assisi, presi contatto col partito, a Bastia, ove
aveva sede il comitato di zona (o di comprensorio, non ricordo bene
come si chiamasse all'epoca) e consegnai la lettera del segretario
della federazione di Caltanissetta, da cui provenivo. Era la prassi,
un po' chiesastica: quando si trasferiva un quadro, anche di basso
rango come io ero, la federazione di partito della nuova sede lo
prendeva in carico grazie alla lettera di accompagnamento, cui
seguiva la richiesta di informazioni riservate sulla sua storia
politica e sulle sue caratteristiche. Qualche tempo dopo mi avrebbero
chiamato da Perugia per conoscermi di persona: in sostanza una
chiacchierata con Nicchi. Che cosa contenesse quell'informativa non
l'ho mai saputo e non lo saprò mai. V'erano federazioni affezionate
ai metodi di Secchia che sistematicamente e ordinatamente
conservavano la documentazione; ma non credo che Perugia fosse tra
quelle.
Al comitato di zona di
Bastia, in piazza, in un primo piano sopra la vecchia osteria cui si
accedeva da una scala esterna, conobbi persone che mi sarebbero state
care per sempre: Sergio Belmonti, il funzionario, d'origine
mezzadrile, modesto e onesto, leale e intelligente, un “prete
rosso” con una laicissima apertura mentale; Mariano Borgognoni, che
forse era ancora militare, pur essendo segretario della zona; Enrico
Lepri, funzionario in Comune e pilastro della sezione a Bastia;
Pronto Celori, il militante più vecchio dal nome curiosissimo,
frutto della sua rapidità nel venire al mondo al momento del parto,
compagno del 21, licenziato dalle ferrovie dai fascisti; Alberto
Stramaccioni, dirigente della Fgci a Perugia, vice di quell'ottimo
Gubbiotti che sarebbe morto in un incidente di lì a poco.
Era – credo – il
settembre del 1978. Ero lì per preparare il trasferimento
dell'intera mia famigliola, oltre che per il mio servizio
d'insegnante: Carmela, Leila che aveva sette anni, Davide che aveva
dieci mesi. Cercavo una casa in affitto, un posto nell'asilo-nido per
Davide. Nubi scurissime si sarebbero addensate subito dopo sulla
nostra serenità familiare e la tempesta l'avrebbe definitivamente
travolta. Ma non è di questa storia, per me tristissima, che voglio
raccontare.
Nelle pochissime
settimane di solitaria permanenza in Umbria, esauriti i miei compiti
di insegnante e padre di famiglia, passavo tutto il mio tempo con i
compagni, soprattutto con Alberto che veniva a Bastia ogni sera per
vedere la ragazza di cui era innamoratissimo, ancora studentessa
media, la Cinzia che tuttora gli è compagna di vita. Già a quel
tempo Alberto era curiosissimo di storia e di storie, specie di
storie comuniste. Io ne sapevo tante, del partito siciliano, del
partito italiano, del partito russo e del partito cinese e mi piaceva
raccontarle a chi non si limitava ad a ascoltare, ma faceva
osservazioni e poneva domande. Insomma con il giovane Alberto, talora
anche con Cinzia, passavo molte serate.
Cinzia non era della
Fgci, simpatizzava genericamente per i gruppi cosiddetti
extraparlamentari, non per uno in particolare. Faceva parte dei
“ragazzi dei giardinetti” così chiamati dal luogo ove si
riunivano a Bastia. Solo pochissimi tra loro aderivano al Pdup o a
Lotta continua, ma tutti erano criticissimi verso il Pci nazionale e
locale, in particolare verso Lodovico Maschiella, ex deputato e
presidente dell'Ente di Sviluppo Agricolo, che da quelle parti aveva
un grande seguito e un grande potere. Lo chiamavano “don Mommo
Piromalli”. Avevano invece un buon rapporto con il Comune, ove il
sindaco socialista, il giornalista La Volpe, era sensibilissimo alle
tematiche e alle esigenze giovanili, così come un paio di assessori,
donne di grande valore, Rosella Curradi e Mirella Zampericoli (la cui
morte prematura è stata dolorosa per me e per molti).
Una sera Alberto e Cinzia
mi trascinarono a una festicciola dei “ragazzi dei giardinetti”,
un compleanno: niente di che, pizzette, porchetta, un pezzetto di
torta. Erano quasi tutti più giovani di me (dai diciotto ai
venticinque), ma neanche io ero vecchio, trent'anni, e non parevo
fuori posto, visto che non pochi tra loro avevano abbigliamenti
assolutamente “normali”. Io ero sempre stato zitto, tollerando i
frequenti lazzi sul mio amato Berlinguer (era il tempo della
“solidarietà nazionale”), ma a un certo punto una ragazza mi
chiese: “Sei del Pci?”. Risposi orgoglioso: “Sì, sono del
Pci”. Ma incuriosito aggiunsi: “Come s'è capito?”. Rispose:
“Si capisce, si capisce”. Sarà che m'aveva visto arrivare con
Alberto, sarà che avevo rifiutato la canna che faceva il giro, sarà
che davvero c'era qualcosa che contrassegnava il nostro modo di
muoverci e di atteggiarci, ma l'aveva capito.
Di quel tempo e di questa
storia mi sono ricordato oggi, per via di quella domanda: “Sei del
Pci?”. Io sono del Pci, sono del Pci, anche se è stato sciolto da
un quarto di secolo, anche se la sua eredità dilapidata è ridotta a
un cumulo di macerie, anche se del Pci ero un militante critico e a
volte molto critico, anche se molti compagni di quel tempo hanno
fatto una finaccia, anche se metto tra i miei maestri anarchici,
socialisti e comunisti diversi da quelli del Pci, eretici. Sono del
Pci e orgoglioso di esserlo, perché si deve soprattutto a quel
partito di operai e di villani la fine (purtroppo provvisoria) della
prepotenza dei ricchi, dell'umiliazione dei deboli, quel tanto di
giustizia e uguaglianza che s'è conseguito in questo paese. Presi la
tessera della giovanile a 17 anni, nel 1965, quella del partito due
anni dopo, nel 67; c'erano una foto
di Lenin e il ricordo della Rivoluzione d'Ottobre. Resto del Pci
finché campo. E non mi pento.
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