Gramsci 1922 |
Da poco che in Italia si
è scoperto che Antonio Gramsci ha avuto una vita fuori dal perimetro
santificato dov'è stato rinchiuso in compagnia di Francesco De
Sanctis e Benedetto Croce. Gramsci ormai non è più solo un nome, ma
un significante che spiega le rivendicazioni delle comunità
afroamericane di base, quelle dei movimenti per l'acqua in India o
dei subalterni che vivono nelle periferie delle grandi metropoli
europee. Dall'India agli Stati Uniti, dal Brasile all'Uk, Gramsci è
diventato una costellazione teorica transnazionale e postcoloniale
dove la rivoluzione è una guerra culturale di trincea, non una
guerra di movimento alla conquista del palazzo d'inverno.
La storia di questo
Gramsci che ha poco o nulla da condividere con la tradizionale
lettura dello storicismo marxista, e forse nemmeno con quella della
ben più interessante della filologia gramsciana, viene raccontata da
Michele Filippini, assegnista di ricerca all'università di Bologna e
membro dell'International Gramsci Society in Gramsci Globale.
Guida pratica alle interpretazioni di Gramsci nel mondo (Odoya,
pp. 176, euro 13).
Anche nel paese più
provinciale che si ricordi a memoria d'uomo, con l'università
ripiegata sul più atroce conformismo baronale, qualcosa sta dunque
cambiando. Le vecchie icone vengono ridiscusse alla luce del
rimescolamento tra l'approccio postcoloniale e il femminismo, tra il
post-marxismo e gli studi culturali. La spinta delle migrazioni e il
rafforzamento culturale delle seconde e delle terze generazioni sta
rafforzando l'attualità dei Subaltern Studies di Ranajit
Guha, Partha Chatterjee o Gayatri Chakravorty Spivak, dei Cultural
studies promossi da Stuart Hall e Edward Said. Merito della
fluidificazione dei confini e delle discipline, e delle costanti
incursioni in Inghilterra, in India o negli Stati Uniti di molti
valorosi ricercatori che, come Miguel Mellino o Sandro Mezzadra,
hanno tradotto, introdotto, curato e intervistato studiosi come
Robert Young.
La tesi di Filippini è
che Gramsci si ritrova al crocevia di intrecci sempre più complessi,
oltre che l'osservatorio attraverso il quale è possibile analizzare
la trasformazione post-coloniale della cultura dei subalterni, quelli
che vivono nella metropoli o nei cosiddetti paesi emergenti.
Nella complessa geografia
globale dei processi culturali, il «gramscismo» si è candidato ad
essere l'alternativa al «decostruzionismo» (meglio conosciuto come
«postmoderno») e non può essere identificabile con una versione
malinconica e luttuosa del «post-strutturalismo» che ha il limite
di avere ristretto il pensiero critico – mai come oggi vivace –
alla polarità tradizionale tra psicoanalisi e politica o tra
psicologia e società, alla Slavoj Zizek per intenderci.
Esso non è nemmeno
alimentato dagli esotismi che non mancano mai di alimentare il circo
dei convegni e delle celebrazioni nelle università dell'Impero.
Gramsci non è attuale non perché è un «italiano», ma perché la
sua macchina concettuale permette ancora oggi di fare a pezzi
l'economicismo del marxismo, o del suo feticcio, e di interpretare
politicamente il neoliberismo che per la sinistra è ancora l'assurdo
sinonimo del dominio dell'economia sulla società o dell'assorbimento
della politica nel campo della tecnica.
Prendiamo il caso del
pensatore afroamericano Cornel West, uno dei più originali
interpreti di Gramsci (Giorgio Baratta fu il primo a capirlo in
Italia), protagonista della saga di Matrix, docente prima ad
Harvard e poi a Princeton dopo essere stato cacciato dal rettore
Larry Summers, attuale ministro dell'economia di Obama, per la sua
acclamata opera di rapper e di militante di base delle
comunità nere e cattoliche. West non è il filosofo di professione
che parla dalla cattedra del New York Times. Frequenta gli show
più popolari della televisione Usa e interpreta il suo ruolo di
attivista di una cultura che non è riservata ai grandi intellettuali
globali, ma è diventata popolare, concretamente mondiale e ha
modificato la mummificata cultura popolare. Lo stretto rapporto tra
cultura e politica negli studi culturali, insieme all'uso dei
concetti di subalternità, dominio ed egemonia negli studi
postcoloniali è la ricetta usata da Cornel West per rivoluzionare il
canone del pensiero critico che abbiamo conosciuto dal Dopoguerra.
Pochi lo sanno, ma tutto è iniziato nel 1981 a Birmingham,
Inghilterra. Allora non c'erano solo i minatori a lottare contro i
tagli alla spesa pubblica e le leggi anti-sindacali di Margaret
Thatcher.
Le strade vennero
conquistate dai giovani asiatici o africani con la cittadinanza
britannica, mentre si
costruivano barricate.
Orecchiavano il punk-rock dei Clash, non c'erano ancora gli
Asian Dub Foundation ma qualcuno già pensava al dubstep.
Scene simili le vide
Etienne Balibar nelle banlieu francesi dove i ragazzi beur
diedero vita alla prima insorgenza della generazione precaria e
meticcia che da 30 anni accusa il razzismo di Stato e la cittadinanza
repubblicana costruita sull'esclusione sociale delle classi povere e
dei migranti. La crescita di questa sensibilità gli costò un
durissimo scontro con il partito comunista francese che spinse
Balibar ad abbandonarlo per sempre.
Stuart Hall è forse
all'origine di questo movimento. Intellettuale inglese di origini
giamaicane, tra i fondatori insieme a E.P. Thompson e Raymond
Williams della New Left Review e animatore del Centre for
Contemporary Cultural Studies di Birmingham, Hall è il fondatore dei
cultural studies e comprende l'ontologia dell'attualità a
partire da un approccio multidisciplinare che incorpora il marxismo,
il post-strutturalismo francese, la critica femminista e la «critical
race theory». La sua tesi è semplice ed efficace: la vecchia
socialdemocrazia europea, insieme a ciò che resta alla sua
«sinistra», non hanno mai capito che il neoliberismo è un
populismo autoritario e non un fascismo. La Thatcher, come oggi
Berlusconi, lasciano al loro posto le istituzioni della democrazia,
ma creano un consenso popolare rispetto a politiche
anti-costituzionali, sicuritarie e individualistiche.
La loro lotta contro
l'uguaglianza si sposa in maniera innovativa con una rivalutazione
della libertà individuale che non è solo quella dell'imprenditore,
ma un vettore di costruzione di una società falsamente comunitaria,
ma in realtà autoritaria. L'egemonia sta tutta qui: mettersi nel
campo della sinistra e devastare il senso dei principi della libertà
e dell'uguaglianza. Gramsci torna allora utile per comprendere la
spettacolare torsione ideologica che separa e, allo stesso tempo,
confonde la libertà e l'uguaglianza, l'oclocrazia con la democrazia,
il povero con il ricco. La rivoluzione passiva in atto ha distrutto
il tradizionale senso comune della sinistra – e del marxismo –
che un tempo fu utile per costruire un'egemonia, condurre una lotta
culturale, decostruire un'ideologia, ma oggi è totalmente
inadeguata. L'opera di Stuart Hall è un formidabile atto di accusa
contro le parti più retrive di una sinistra che crede ancora nella
cultura popolare, quella che coincide con le tradizioni popolari di
resistenza, mentre i paradigmi dei progressisti continuano a muoversi
in direzione di una fantomatica meta postmoderna che si risolve in un
tecnicismo politicamente disarmato: la governabilità. Al fondo del
gramscismo rivoluzionario di West e Hall c'è l'idea che la
trasformazione avviene a livello molecolare, è individuale e
collettiva, e si sviluppa con la creazione
di comportamenti,
pratiche e discorsi che si oppongono alle norme dominanti. Pensare
invece che essa provenga dall'esterno, oppure da un territorio
autentico della soggettività di classe, comeda un'idea al di là
della storia, significa condannarsi a bere l'insipida minestrina
servita dal post-marxismo contemporaneo, quello che riscopre l'idea
speculativa di un comunismo ispirato all'ortodossia neo-platonica
(Alain Badiou), la filologia dei testi dei padri fondatori (Marx) o
piomba, nel vicolo cieco di una teologia politica apocalittica o
messianica (Zizek, Agamben, Tronti). Ma ciò non basta per
allontanare il rischio di considerare l'egemonia come una banale
mediazione tra interessi frammentati, identità segmentate e campagne
politiche autistiche.
Anche il gramscismo
globale rischia di ridurre questo concetto fondamentale ad una
psicologia o al valore etico del gruppo dominante o dei suoi
oppositori. Questa obiezione, non nuova, merita una discussione
seria. Alla base c'è il timore di legittimare l'idea che la «lotta
di classe» è finita e si è trasformata in un conflitto tra una
pluralità di soggetti non riconducibili alla medesima condizione
socio-economica. Ma questo timore deriva dal riduzionismo e
dall'iperdeterminismo politico che il pensiero critico ritiene di
avere messo alla porta, mentre il vecchio spettro rientra dalla
finestra. L'intellettuale postcoloniale Ranajit Guha invita a
osservare questi stessi fenomeni anche nelle metropoli occidentali.
Esistono mobilitazioni
che non cercano il nuovo principe - il partito - ma esprimono con le
parole di Gramsci una «molteplicità di elementi di “direzione
consapevole” anche se nessuno di essi è predominante».
Gramsci oltre Gramsci.
Non è detto che questa prospettiva convincerà i suoi tradizionali
cultori, ma questo poco conta. Il punto è: in che modo, e quando,
questa molteplicità riuscirà a costituire il proprio principe?
“alias – il
manifesto”, 30 aprile 2011
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