La
notizia della morte e il “coccodrillo” di Cary Grant sul
“manifesto”. (S.L.L.)
Cary Grant è morto.
Aveva 82 anni. L'attore è deceduto domenica mattina all'ospedale
St.Luke di Davenport, Iowa. Lo ha annunciato il direttore
dell'istituto di cura, James Stuhler, specificando che Grant è morto
alle 23,22 per congestione cerebrale. Era stato ricoverato, in stato
di coma, sabato sera. Lo aveva accompagnato la moglie Barbara Harris.
L'attore si era sentito male durante le prove dello spettacolo «Una
conversazione con Cary Grant».
Cary Grant aveva in
comune con Alfred Hitchcock la nostalgia delle liquirizie, passione
che li legava alla natia Inghilterra. Inoltre quello che li
magnetizzò in ben 4 film (Sospetto, Notorius, Intrigo
internazionale, Caccia al ladro) furono alcune
caratteristiche caratteriali: l'amore per la vita l'autoironia, la
cordialità e il perfezionismo nel lavoro. Probabilmente la scintilla
di quel sodalizio nacque perché Il sospetto (1941), splendida
metafora sui limiti e sulle grandezze del matrimonio borghese (tanto
che ci furono ripensamenti per mesi su «come-finire-il-film»), fu
un successo storico.
Cary Grant è stato il
numero uno in varie categorie, tranne in quella che conta meno (non
ha mai vinto l'Oscar, se non quelli «per l'intera carriera»,
ulteriore ipocrisia dell'Academy Award). Fu il numero uno della
colonia inglese (anni trenta) che trapiantò in Usa l'humour
«tipicamente isolano» e l'eleganza. Gli inglesi possono cambiare
residenza e al limite anche fede politica, ma rimangono sempre fedeli
al loro sarto. Nel 1938 Cary Grant possedeva 24 abiti (in
un'intervista si scusa per questo: «sa, per il mio lavoro, me ne
servono molti...») per lo più marroni, ma anche grigi, nonché uno
nero con dei piccoli puntini. Vengono tutti da Londra (tranne gli
accessori, hollywoodiani). Preferisce le camicie blue e marrone
chiaro, ama i vestiti sportivi e guida una macchina scoperta, lunga,
affusolata, potente... Stiamo sbirciando un articolo della rivista
per fan Motion picture, del 1938. Che elenca le altre
categorie in cui Grant è primo. Nella fedeltà alla situazione di
scapolo (poi sapremo che è stato un numero uno anche nel numero dei
matrimoni, 5. Nell'essere, nonostante tutto, il meno inglese degli
inglesi: esuberante, impulsivo, sembra italiano: «Tutta la mia
famiglia è scura di carnagione, più scura di me». E il primo nella
commedia brillante. A tal punto da rimproverare una volta sul set
Hitchcock (che pure ne accettava i consigli di regia) di non
conoscerne troppo bene i segreti e i ritmi tanto da fargli dire
«battute alla David Niven...».
Era il numero uno nella
distrazione (svanito come il prof. Huxley di Susanna) e il numero uno
nella pignoleria (quanta «scienza dei contratti» con gli studi).
Questo perché proveniva da una famiglia povera, quella che gli mise
il nome di Archibald Alexander Leach quando nacque il 18 gennaio 1904
a Bristol. La stessa che lo costringe a fuggire di casa quando ha 15
anni. Acrobata, girovago sui trampoli, poi New York, dove fa tanta
commedia musicale e teatro. A trent'anni è pronto per Hollywood. Lì,
quasi casualmente, viene scritturato dalla Paramount.
Cambia nome, e si gode
l'era pre-codice Hays (quando si poteva dire e fare quasi tutto nei
film Usa). Fa film con Dorothy Arzner, fa Blonde venus con
Sternberg e Dietrich e un giorno passeggiando per gli uffici della
Paramount affascina Mae West: «Era la cosa più bella che avessi mai
visto in California», dirà la divoratrice di uomini. Lo vuole
subito come protagonista di Lady Lou e I 'm not angel.
Poi arrivarono le forbici
della censura e Cary Grant approfondi il mestiere con altri grandi
della commedia, Hall, McLeod, Nugent e Cukor, col quale nel '36
realizza Il diavolo è femmina. Al suo fianco una scatenata
Katharine Hepburn. Una reciproca simpatia. «Una buonissima persona,
intelligente, premurosa» diceva Grant di lei. E la Hepburn: «Fu il
primo ruolo decente di Cary Grant perché George Cukor lo conosceva e
lo usò come personaggio di commedia, quello su cui poi si costruì
la carriera: fu la sola cosa che ebbe successo nel film».
Infatti anche Cary Grant
ricorda con affetto quel film, un disastro commerciale, oggi
rivalutato: «Facevo il cockney e, in termini di pubblico, fu un
disastro. Ma io imparai da George Cukor i tempi della commedia».
Basterà ricordare (a
proposito di tempi della commedia imparati) gli altri grandi film di
Cary Grant: L'orribile verità di Leo McCarey, La via
dell'impossibile di McLeod, Susanna di Howard Hawks,
Incantesimo di Cukor, La signora del venerdì di Hawks,
Le mie due mogli di Garson Kanin, Scandalo a Filadelfia
di Cukor. Sono quei film che nel linguaggio critico vengono chiamate
commedie screw-ball. Il termine deriva dal baseball e
significa «palla lanciata a vite, con effetto imprevedibile per il
battitore». Insomma qualcosa di pazzo, ma che va a segno. In questo
genere si rifugiò tutto quello che fa grande un cinema messo in
situazione di non nuocere quanto ai contenuti: la satira,
l'autoironia, la franchezza sessuale, la demistificazione politica
sotterranea. Certo, tutto doveva essere simulato. Ma il doppiofondo
segreto (agli uffici di censura, non al pubblico) era: «scateniamo
l'immaginazione, la curiosità e l'intelligenza. Anche se,
apparentemente, parliamo di santità del matrimonio, di giuste
distinzioni di classe e di dominio sulle donne da parte degli
uomini».
«Quei film — scrive lo
storico del cinema Robert Sklar — fornivano agli spettatori una
visione del tutto nuova di stile di vita sociale e un diverso modo di
essere: amare i piaceri era ok anche se ciò vi faceva sembrare sexy
o strani.
Sklar non le beve le
screw-ball comedies, perché esse non «sfidarono mai l'ordine
sociale». Eppure un attento osservatore di simbologie sessuali
vacillanti come Vito Russo scrive in Lo schermo velato (Costa
& Nolan): «Solo una volta durante il regno del codice, la parola
gay inserita in un film al di fuori della sceneggiatura, parve
riferirsi all'omosessualità e fu in Susanna! di Hawks. Quando
la zia di Katharine Hepburn, Elizabeth (Mae Robson) scopre Cary Grant
in vestaglia di pizzo, gli chiede se si vesta sempre così. Grant
sobbalza e lancia un urlo isterico: «No, sono diventato gay... tutto
a un tratto». Nelle sceneggiare pubblicate questa battuta,
probabilmente un'improvvisazione di set, è sparita.
Nel '46 con Alexis Smith,
Cary Grant interpretano Notte e dì, la biografia del
musicista Cole Porter, amico per tutta la vita, ma non amante di
Monty Woolley. C'era molto di Grant in quel film. Anche lui ha
vissuto molti anni con l'attore Randolph Scott in una villa al mare
in affitto a Malibù. Anche lui amava suonare canzoni sentimentali al
Diano. Giocare a ping pong, abbronzarsi. Anche lui eccentrico e
imprevedibile : «il lavoro che uno fa può essere anche importante,
ma l'individuo in sé non lo è mai. Noi oggi siamo qui e domani
possiamo non esserci più. Io voglio sfruttare questo successo per
quanto ne vale la pena, e fare in modo che questa mia breve
permanenza in questo vecchio, ridicolo mondo sia la più piena,
armoniosa e soddisfacente possibile — facendo in modo che questa
mia ricerca non produca danni agli altri».
Certo, distrattissimo,
non aveva mai contante con sé, «è sempre negli altri calzoni».
Ma, come disse un produttore: «Grant non firma niente di più
duraturo di un contratto per due-tre film, ma in quel contratto
ottiene qualunque cosa, tranne le stoviglie per la cucina. Dovrebbe
fare l'avvocato» (la sua eredità è di 80 miliardi di lire). Aveva
imparato, a prezzo di duri calli, da giovane, che la vita è troppo
seria per essere presa seriamente. Doveva aromatizzarla con dosi di
stravaganza. Smemorato per le cose importanti, si ricordava di tutti
i dettagli, tipo mandare quel tipo di fiori alla madre della sua
segretaria per il suo compleanno... Mae West disse di lui, a
proposito del suo carattere lunatico: «C'è un solo errore che una
ragazza può fare con quell'uomo, prenderlo come qualcosa di
garantito» dove garantito in inglese è grant, dal verbo to
grant garantire, accordare, concedere.
Davide Turconi, quando
realizzò il catalogo Divi & divine pubblicò su Cary
Grant due bellissimi articoli degli anni trenta, un po' prima che
l'attore di Bristol balzasse per 4 volte ai primi posti tra le star
più amate dal pubblico americano. In uno di questi, Virginia T. Lane
di Photoplay scrive, profeticamente: «vi hanno mai raccontato di
come Grant espugnò Richmond? È una bazzecola in confronto a come
Grant espugnò Hollywood». Divenuto una cosa sola con lo studio e lo
star system. Cary Grant sopravvisse alla sua dissoluzione negli anni
'50. Assieme ad altre star si autogestì gli ultimi momenti di
carriera, ma, incredibile!, andò in pensione quasi in età standard,
a 62 anni. Dopo 72 film nient'altro.
Una vecchiaia deliziosa,
ma un po' folle, come tutta la sua vita. Basta pensare alla sua
mimica facciale. Alla stessa sua presenza dai doppifondi espressivi
innumerevoli, e senza sforzo. Jerry Lewis ci ricordava che, in un
piano sequenza, basta che Cary Grant contragga i muscoli della
mascella che è già di per sé una dissolvenza. Il critico italiano
Lugli ricordava, per anteporlo a Cooper, «una sensibilità più
attenta, un ulteriore pensare». E questo pensare, il fatto che in
tutti film quello che Cary Grant sta facendo è pensare
(esempi: La signora del venerdì, Il magnifico scherzo)
anche se non ne avrebbe la minima voglia (Intrigo internazionale),
vale più, nel ricordo, dei suoi altri arnesi di lavoro: un sorriso,
ormai scomparso per sempre, gioviale e con tutti i sottointesi
espliciti. L'ammiccare degli occhi che alzano il sopraciglio, il
contrarre il viso all'indietro in una mossa di meditato stupore, il
muoversi a spalle ferme con le gambe spinte più in avanti del
busto».
È già una satira, una
parodia, appena appare. Figuriamoci poi quando, in Susanna!,
nella seconda scena, viene presentato da Miss Swallo: «Shhh! il
professor Huxley sta pensando» e la macchina da presa risale sul
dinosauro che Huxley sta mettendo a posto e lo scopre così,
nell'imitazione di Il pensatore di Rodin. Mentre, a fine film,
sarà l'interprete, con la Hepburn, della parodia di Il bacio
di Rodin. In mezzo c'è stato un avvicinamento all'amplesso, l'amore.
Ma, prima e dopo, la pietra che ti imprigiona per sempre.
Non sei importante tu, ma
il lavoro che fai. «Simulacro dell'imborghesimento senza essere
naturalisticamente borghese, monumento di un'epoca e di una classe
che ha rinunciato ai monumenti, rende eroico uno status che nega
l'eroismo», come ha scritto Adriano Aprà della Strategia
Grant.
“il manifesto”, 1
dicembre 1986
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