dal sito del Ministero della Difesa |
La battaglia di Custoza
del 1866 è una delle meno presenti nella storia patria e c’è il
motivo. Fu una sconfitta (non sono mai belle da ricordare) che si
avverò con modalità grottesche: un catalogo dei difetti italiani
che ancora oggi possiamo trovare immutati ogniqualvolta si tratti di
elaborare una leadership, decidere strategie, governare uomini. Non
per nulla uno dei migliori libri sull’argomento, Custoza 1866
di Gioannini e Massobrio (Rizzoli) ha come sottotitolo La via
italiana alla sconfitta. E il Guinness dei fiaschi militari
(Mondadori) dell’inglese Geoffrey Regan la definisce «opera buffa»
in cui i vari protagonisti «confusero tutti compresi se stessi e
trasformarono in farsa cose alquanto serie». Perché critiche tanto
spietate da diventare sberleffo?
Innanzitutto 150 anni fa
non c’era nessuna idea di fare guerra all’Austria. Fu la Prussia
di Bismarck, che stava perseguendo la sua politica di unificazione
della Germania, a coinvolgerci. Dopo parecchie esitazioni, Alfonso
Lamarmora, che era sia primo ministro, sia capo dell’esercito,
accettò la proposta, attirato dal miraggio di una facile vittoria.
Tutto faceva pensare a una occasione imperdibile, da cogliere al volo
con italica furbizia: la guerra avrebbe avuto come campo di battaglia
principale la Germania, mentre il fronte italiano sarebbe stato
secondario. Inoltre voci credibili da Vienna facevano sapere che il
Veneto sarebbe stato dato all’Italia indipendentemente dal
risultato del conflitto. E i numeri sembravano mettere al riparo da
sorprese: gli italiani schieravano 175 mila uomini contro i 75 mila
dell’impero.
Tutto facile? Non per gli
impennacchiati generali italiani. Il piano di guerra prevedeva una
doppia linea d’attacco: un distaccamento dall’Emilia doveva
attraversare il Po e minacciare gli austriaci da sud, mentre il
grosso assaliva il nemico da ovest, nelle zone infauste della
sconfitta del 1848. Però alla testa dell’armata del Po c’era il
generale Enrico Cialdini, che non sopportava, ricambiato, Lamarmora:
il primo tanto fece e tanto brigò che alla fine ottenne di comandare
un vero esercito in maniera autonoma: 70 mila uomini e 300 cannoni.
Più di quanti ne avesse Napoleone ad Austerlitz. Poi c’era il re,
che non godeva di grande considerazione da nessuno dei due generali,
ma che voleva essere in linea e non glielo si poteva certo impedire.
La sua presenza aumentò ulteriormente la confusione su chi
comandasse per davvero. Infine c’era una miscellanea di generali:
piemontesi, ex borbonici, garibaldini, toscani, emiliani. Tutti con
motivi di diffidenza e sospetto reciproci.
Fu questo esercito che
all’alba del 24 giugno 1866 si mise in marcia verso le linee
austriache. A fare che? Questo è il problema. Forse a cercare
battaglia; forse per una sorta di ricognizione in forze. Forse per
attirare gli austriaci a ovest e lasciare il campo sgombro a Cialdini
per passare il Po. Qualsiasi cosa fosse, fu fatta male. Le fanterie
avanzarono come per una parata, alcune con la fanfara in testa,
mentre la cavalleria, che avrebbe dovuto essere davanti a esplorare
il terreno, era in coda, imbottigliata nel caos dell’attraversamento
dei ponti.
Dall’altra parte il
comandante austriaco, l’arciduca Alberto, aveva elaborato un piano
coraggioso: aveva lasciato solo un esile velo di truppe sul Po,
spostato tutte le forze a ovest e nella notte aveva varcato l’Adige
e si era portato verso il Mincio. Risultato fu che gli italiani si
trovarono a urtare contro posizioni forti, del tutto inattese e
trovandosi per di più in inferiorità. Infatti tra le truppe
lasciate a Cialdini, quelle di guardia alle fortezze austriache di
Peschiera e Mantova e quelle tenute di riserva, la superiorità
numerica italiana si era volatilizzata. Intanto, intorno a
Villafranca, due divisioni erano state attaccate dagli ulani:
resistettero bene in quadrato (c’era anche il principe Umberto), ma
l’effetto della sorpresa fu tale che non si mossero più per tutta
la giornata.
Fin qui una battaglia
slegata e improvvisata, ma nulla di irreparabile, se non fosse che il
panico prese i comandi. Lamarmora era irreperibile: forse per emulare
lo stile di Garibaldi, era andato nelle prime linee a cercare di
rimediare alla situazione, col risultato che nessuno sapeva dove
fosse. Senza ordini superiori gli altri generali si guardarono dal
prendere iniziative. Verso metà giornata, nel caotico quadro
generale, con unità in rotta e altre ferme, che non sapevano cosa
fare, si delineò una possibile linea d’azione vincente. Uno dei
migliori generali italiani, Giuseppe Govone, portò la sua divisione
ad attaccare al centro dello schieramento nemico, presso Custoza. La
mossa ebbe successo e il paese venne conquistato: Govone chiese
rinforzi per proseguire lo sforzo, ma non arrivarono. Con un altro
assalto conquistò anche le alture circostanti: la vittoria sarebbe
stata probabilmente a un passo, ma ancora una volta non giunse nessun
aiuto. A pochi chilometri di distanza c’erano le due divisioni
ferme a Villafranca, le armi al piede; la risposta del loro
comandante, Della Rocca, alle richieste di aiuto furono: «Ca
s’rangi». Che si arrangi. Della Rocca era soprannominato Macigno,
probabilmente per la sua duttilità mentale, e non sopportava Govone,
detto Professorino o Picozzino per la sua ostinazione in quello che
credeva. Picozzino non poté nulla per smuovere Macigno e a metà
pomeriggio, a fronte di un imponente contrattacco imperiale, dovette
cominciare a far retrocedere i suoi: la giornata era definitivamente
perduta.
A ben vedere si era
trattato di una battaglia storta, non una sconfitta decisiva:
l’esercito italiano era ancora superiore per uomini e cannoni, gli
austriaci avevano avuto più perdite e Cialdini non aveva davanti
nessuno che potesse ostacolare la sua avanzata. Ma invece di cercare
di rimediare, i vari comandanti preferirono gettarsi la colpa addosso
l’un l’altro e Cialdini, per non rischiare di essere immischiato
nella rotta, ritirò le sue truppe senza nemmeno sparare un colpo.
Le alte sfere impiegarono
una decina di giorni a recuperare la situazione e quando sembravano
pronte a riprendere la campagna arrivò la notizia ferale: il 3
luglio a Sadowa i prussiani avevano sbaragliato l’esercito
austriaco, mettendo in campo capacità all’opposto di quelle
mostrate dagli italiani: pianificazione, efficienza, innovazione. Per
evitare che la guerra terminasse con l’annessione del Veneto, ma
senza una vittoria italiana, si cercò di ottenerla sul mare. A Lissa
si ebbe la replica marinara di Custoza: gli italiani, in superiorità
per numero e qualità di navi, si fecero sconfiggere per incapacità
di comando superiore (l’ammiraglio Persano poi fu condannato per
incompetenza) e ignavia dei comandanti inferiori. Tegetthoff,
l’ammiraglio austriaco, poté constatare con orgoglio che «uomini
di ferro su navi di legno avevano sconfitto uomini di legno su navi
di ferro».
Alla fine l’unico a
ottenere una mezza vittoria fu il solito Garibaldi a Bezzecca: un
altro schiaffo per i militari sabaudi. Il commento più triste e
profetico lo scrisse Govone (nel frattempo ostracizzato dagli altri
generali perché in battaglia si era dato troppo da fare!) in una
lettera a un amico: «Perdemmo per inabilità l’occasione di avere
il Tirolo e forse Trieste! Dio ci perdoni e ce lo perdonino i
posteri». Verrebbe davvero da chiedersi come sarebbe stata la storia
italiana con Trento e Trieste conquistate nel 1866, senza la
necessità di entrare in guerra nel 1915 e con una nazione che una
vittoria avrebbe reso meno frustrata e lacerata, più sicura dei
propri mezzi.
“La lettura –
Corriere della Sera”, 22 maggio 2016
Nessun commento:
Posta un commento