Nel 1982 ci fu a Milano,
città molto craxizzante, una mostra sulla cultura negli anni del
fascismo trionfante che sembrò aprire la strada ad una
rivalutazione. Al tempo non ne ero convinto, ma non dimentico che non
molti anni dopo il milanese Berlusconi scongelò i neo o post di La
Russa e di Fini e li portò al governo. Quello che segue è
l'articolo di presentazione, assai brillante di Natalia Aspesi.
(S.L.L.)
MILANO — Il rischio è
che il fascismo appaia non solo esteticamente attraente —
addirittura alla moda — ma anche conciliante, liberale, protettore
e non repressore di artisti e intellettuali, i quali mai come in quel
periodo se la godettero, furono fervidamente creativi, incoraggiati e
ben pagati. «Per carità, credo che gli italiani siano in questo
senso abbastanza maturi per giudicare senza nostalgia», dice Guido
Aghina, assessore alla cultura, sostenitore entusiasta della mostra
«Gli anni 30: arte e cultura in Italia», che si inaugurerà il 26
gennaio prossimo. «Sarà la prima mostra così ampia e così ricca
su un decennio di vita italiana. Un atto doveroso di coraggio, che
farà opera di verità sugli anni “belli” del fascismo, quelli
del consenso. E’ troppo facile continuare a ricordare di allora
solo il volto becero e violento; proprio per arrivare a un giudizio
sereno, a una ragionata condanna del fascismo, è giusto mostrare
anche quello che con il regime, o malgrado il regime, fu realizzato
in Italia dai nostri artisti e dai nostri uomini di cultura».
C’è stata in ogni caso
un’ultima ventata di prudenza, di autocensura. Non ci sarà, come
qualcuno dei più arditi organizzatori voleva, ad attraversare piazza
del Duomo, uno striscione con la minacciosa gigantesca firma di
Mussolini e la frase da lui pronunciata poco prima di crollare, il 24
giugno 1943: «Venti anni di regime non sono passati invano nella
vita italiana ed è umanamente impossibile cancellarli». E’ stato
il comune sentimento del pudore a sconsigliarlo, dice Renato Barilli,
coordinatore scientifico della mostra e membro della commissione
incaricata dal Comune di Milano di progettare-manifestazioni.
Nella Galleria Vittorio
Emanuele ci sarà la struttura di tubolare metallico realizzata da
Nizzoli e Persico nel '34, sovrastata da un aereo Caproni, su cui
verranno proiettati in continuazione film Luce dell’epoca; ma la
voce del Duce non rimbomberà (come qualcuno aveva suggerito) per
ricordare i tempi dei discorsi alle folle oceaniche nella piazza
accanto. Nella piazzetta Reale ci saranno due lit-torine del 1934, ma
private dei fasci dorati che le decoravano.
Una cappa
protettiva
«All’esterno abbiamo
fatto in modo di non esporre niente che potesse in qualche modo
essere offensivo; tutto ciò che è vistosamente fascista, l’abbiamo
riservato all’interno della mostra, in un contesto dove è più
possibile capire, valutare, riflettere», dice ancora Renato Barilli.
«Però deve essere chiaro che noi non abbiamo organizzato una mostra
politica, non pensiamo affatto di fare un ennesimo processo al
regime, né, tanto meno, una sua anche lontana rivalutazione. Come
dice il suo titolo, noi abbiamo voluto una mostra essenzialmente
d’arte, per mostrare quello che effettivamente è avvenuto in
quegli anni nella produzione artistica italiana: nella pittura e
nella scultura, nell’architettura e nella grafica, nel primo design
industriale e nella moda, nel cinema, nel teatro, nella musica, nella
letteratura, nella fotografia».
È impossibile però
ignorare l’ingombrante e onnivora presenza del fascismo, in tutti
gli aspetti della vita italiana, e soprattutto nella cultura. «La
mostra chiarisce che il regime fu una grande cappa protettiva, sotto
la quale ogni artista era libero di seguire la propria vocazione:
nessuna corrente artistica divenne arte di regime, nessuna fu
privilegiata rispetto a un’altra, nessuna fu messa al bando. Al
contrario di quel che avvenne nella Germania nazista, nessuna forma
d’arte fu da noi definita “degenerata”. D’altra parte,
bisogna ricordare che almeno sino al ’37-’38, prima della folle
politica razziale e dell’avvio alla guerra, gli artisti
antifascisti erano assai rari, al massimo c’erano gli indifferenti:
nessuno per esempio lasciò il paese, come furono costretti a fare
gli uomini di cultura tedeschi».
Nel monumentale catalogo
della mostra (Mazzotta, pagg. 680, lire 25.000), Barilli afferma: «Si
sa bene che le polemiche tra le varie tendenze che entrano a comporre
il nostro parallelogramma di forze, si combattono di frequente a
colpi di fedeltà, presunta o reale, al verbo della “rivoluzione
fascista”». Erano cioè più o meno entusiasticamente fascisti
tutti: i maestri del Novecento e i futuristi, quelli di Corrente e
gli astrattisti, i piacentiniani e i razionalisti, i neoselvaggi e i
sei di Torino.
A caro prezzo
Affinché il pubblico non
si innervosisca tra oggetti e quadri e fotografie e film che
testimoniano di una vita culturale sino a un certo punto non
provinciale, partecipe dei movimenti europei, piena di fermenti, sia
pure organizzati dentro al regime, ci saranno due sezioni a ricordare
la realtà greve e drammatica del fascismo. La prima, dedicata alla
vita politica e sociale e curata da Giordano Bruno Guerri, avrà il
compito di illustrare come in quegli anni di consenso popolare «il
regime invase due nazioni inermi, partecipò a una guerra civile
altrui, scatenò terremoti legislativi e sociali, ma soprattutto
tentò freneticamente di trasformare in pochi anni il popolo
italiano».
Di tutto ciò, dice
Guerri, bisognerà tener conto passando per le 18 sezioni della
mostra, a Palazzo Reale, all’Arengario, sotto il Sagrato, per non
dimenticare quanto il popolo italiano, e poi il mondo, abbiano
caramente pagato realizzazioni anche pregevoli, anche eccezionali.
«Né bisogna dimenticare come una vita quotidiana — moda, arte e
spettacolo — che oggi ci appare “graziosa”, attraente, piena di
fascino (e lo fu), sia stata attraversata da eventi spesso
drammatici, talvolta esaltanti o meschini, ma che avevano tutti la
caratteristica di svolgersi sopra la testa della gente e, insieme,
sulla sua pelle».
L’altra sezione di
«riequilibrio», curata da Vittorio Fagone, è dedicata alla
politica e propaganda: spiega come il fascismo si preoccupò
soprattutto «del consenso degli artisti attraverso il gioco delle
committenze, delle esposizioni, degli incarichi, degli acquisti: e si
servì, per una propaganda alcune volte ingenua, ma anche in non rari
casi efficace e suggestiva, di artisti dotati di buon talento». Il
che conferma però che il fascismo fu un buon affare per tanti
artisti e che, attraverso le grandi esposizioni, le Biennali e le
Triennali, la mostra del Decennale e le Quadriennali, i premi Bergamo
e Cremona, il grande uso di artisti nelle opere pubbliche (fissato
poi con la legge che destinava il 2 per cento della spesa di un’opera
pubblica per il suo abbellimento artistico), lo Stato fu un
committente generoso per tutti i suoi solerti sostenitori.
Ciò che tuttavia sta più
a cuore a Renato Barilli e ai suoi collaboratori, va oltre ogni
polemica, troppo facile, sull’adesione italiana al fascismo, ed è,
come si diceva, il tentativo di dare la più ampia testimonianza
culturale di un’epoca. «Oggi non si può più puntare su un solo
movimento, come si è fatto in passato: prima c’è stata la
consacrazione ufficiale del Novecento, poi, nell’ottica della
Resistenza, si sono rivalutati Corrente e la scuola romana; negli
anni ’60 ci si è riappropriati dell’astrattismo lombardo.
I racconti murali
«Oggi, dopo l'esperienza
postmoderna, si ritorna a privilegiare il Novecento, il realismo
magico. La stessa cosa vale per l'architettura. C’è un
ripensamento su Piacentini; in fondo, il funzionalismo di Terragni
aveva un rigore che oggi incuriosisce meno delle proposte di
architetti come Muzio o Portalluppi o Mezzanotte, che conciliarono la
funzionalità con i piaceri dell’arco, dell’ornamento. Ma forse
la parte più interessante e nuova della mostra è quella dedicata
alla pittura murale, opera di regime, sociale, che iniziò proprio in
Italia sotto il fascismo, ma che poco dopo fu sentita anche dal
Messico rivoluzionario o dagli Start Uniti di Roosevelt. Mostreremo
in grandi diapositive, le opere del Palazzo di Giustizia di Milano, i
grandi racconti murali di Sironi, Fontana, Melotti, Funi, Savinio».
Sembravano orrendi, e
anche un po’ ridicoli, quei grandi dipinti retorici e
propagandistici; ma si sa, tutto torna di moda; adesso può davvero
darsi che anche i visitatori della mostra milanese li trovino
sublimi. Resta il fatto che in questa grande rassegna non dell’arte
fascista, ma degli artisti italiani sotto il fascismo, e quindi
fascisti, se è stato facile mettere insieme 400 opere d’arte,
molto più difficile è stato reperire gli oggetti della
quotidianità. La gente, subito dopo la guerra, se ne era liberata:
li trovava bruttissimi, oppure sembravano tali perché testimoni di
un regime che alla fine fu, fortunatamente, molto odiato. Il lavoro
di ricupero, dice Anty Pansera, che ha curato le sezioni delle
quattro Triennali fasciste e del protodesign, cioè dei primi oggetti
disegnati e riprodotti in piccola serie, è stato faticoso e poco
soddisfacente. Introvabili i mobili disegnati da Gio Ponti per la
Rinascente, scarse le radio firmate da Figini e Pollini nel ’33 o
da Albini nel ’38, o la ghiacciaia Algidus che anticipò la
cantinetta oggi molto in voga. Ci saranno però oggetti straordinari
ritrovati fortunosamente, tra cui un tandem Umberto Dei e una
bicicletta dei Fratelli Vianzone di Torino, tutta in legno curvato,
da oscurare Alvar Aalto.
“la Repubblica2, 12
gennaio 1982
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