3.2.17

Per Mussolini la parola è magia (Mario Isneghi)

Eccellente volumetto, questo di Erasmo Leso, Michele A. Cortellazzo, Ivano Paccagnella e Fabio Foresti, sul tema La lingua e il fascismo, costruito su materiale e analisi di prima mano e introdotto da Luigi Rosiello. E c'è da augurarsi che il Consorzio Provinciale Pubblica Lettura di Bologna — che ha promosso prima queste conferenze, poi la loro pubblicazione — abbia anche la possibilità di farlo circolare (come merita un po' tutta questa bene avviata collanina, tra cui segnalo da ultimo una corposa rassegna di testi e approcci problematici su La scuola e il fascismo, di Giuseppe Ricuperati).
Difficile rendere in sintesi l'intreccio polivalente di osservazioni testuali, proposte di ricerca e avvii di sistemazione critica, a proposito della lingua di Mussolini (Leso); degli antecedenti della retorica fascista nel Mussolini socialista (Cortelazzo); del maturare del linguaggio politico di un oppositore, Eugenio Curiel, all'interno di un giornale della gioventù universitaria fascista (Paccagnella); dell'interrogativo circa l'esistenza e le modalità di una «politica linguistica» del regime (Foresti). Anche per il recensore, è d'obbligo rimandare ai testi.
Rilievi largamente comuni ai vari autori sono comunque, innanzitutto, questi: la lingua di Mussolini — oratore e giornalista — va posta al centro dell'analisi sulla lingua del fascismo, anche se non siamo in grado ancora di misurarne per intero il grado di irraggiamento sociale; essa tende a porsi come un modello di "purismo" fascista, che ammette tuttavia aree di non coincidenza con forme più tradizionali di purismo linguistico; la lingua del Duce «non ha e non vuole avere una funzione referenziale», «la parola è uno strumento magico» (Leso), conta in quanto emoziona e persuade le folle, non in quanto produca argomenti razionali rivolti al cervello dell'individuo; perciò il lessico si riduce, mentre, la frequenza si innalza; e «il rilievo sonoro è assolutamente prevalente sul rilievo argomentativo, la musica del discorso assolutamente prevalente sulla semantica del discorso»; tale processo di «desemantizzazione» della lingua si incarna in un personaggio che rappresenta biograficamente il «trait d'union» tra socialismo e fascismo e il luogo di incontro di una serie di contrastanti, ma convergenti eredità di sinistra e di destra (con inquietanti problemi d'ordine generale, di cui i processi linguistici possono fornire una buona spia, non naturalmente una ricognizione esaustiva).
Ogni autore fa la sua parte nel volume miscellaneo, che io non voglio quindi sottoporre a una lettura troppo schematicamente unificante. Dalla musica verbale del discorso fascista — in cui il significato viene meno per Paccagnella — addita una via d'uscita Eugenio Curiel: uno scienziato «rosso», capace di restituire alla parola certezza e potenzialità cognitive.
L'argomento stesso conduce Cortelazzo a sottolineare fortemente la «mancata omologia tra mutamenti ideologici e mutamenti linguistici» («il "colore del tempo" così unitario e così forte da annullare ogni differenza politica», come scriveva su La Repubblica Arbasino); e a riferire tale asserzione, oltre che al trapasso dal prefascismo al fascismo, a quello dal fascismo al postfascismo. Questo, sulla scorta anche di uno stimolante studio di Andrea Battistini sui volantini della Resistenza emiliana, da cui risulta che persino i testi partigiani sono scritti in «lingua fascista»: sia perché una lingua è un sistema, e come tale sopporta «usi» diversi ma presenta un forte grado di continuità interna; sia perché, se si vuole comunicare — come è necessario per un movimento che voglia essere popolare — bisogna passare attraverso codici preesistenti e diffusi, dosando con prudenza le innovazioni.
I miei dubbi di non-linguista vertono tutti attorno a questa mancata omologa tra mutamenti ideologico-politici e mutamenti linguistici. Bisogna dire che i nostri autori alternano gravità e perfidia nel garantire ai non addetti che la sorpresa è fuori posto e che si tratta di una legge interna della lingua di cui non si può che prendere atto. A me pare che qui si apra una frana che travolge ogni possibile alterità — non solo linguistica, e non solo nella Resistenza —, illustrando con una patente culturale il trasformismo come necessità politica di ogni politica di massa. Mi chiedo se così la lingua non diventi un po' come lo Stato di Nenni nei giorni del primo centro-sinistra: qualcosa di neutrale, da sottoporre all'uso proprio, dopo averlo sottratto all'uso altrui, una volta entrati nella stanza dei bottoni (questa volta, linguistica).
Quando, indifferentemente, si diviene depositari dell'ordine e della rivoluzione; la Patria è la mia e gli obiettivi tutti «fatidici», mi domando: non è che queste operazioni di ricalco linguistico siano pericolose e ambigue? Non è che la constatazione «tecnica» di uno stato di necessità — la vischiosità dei processi linguistici — finisca per coprire anche delle scelte «politiche» povere di carica alternativa?
Sui rapporti tra momenti storici di rottura e lingua ne vorrei sapere di più, prima di deporre ogni obiezione di coscienza a questo stato di necessità. Quanto e come il nuovo viene a patti con il vecchio, comunicando tramite il codice dato? Quanto lo innova e lo redime, e quanto ne viene invece esso stesso condizionato e connotato? Perché si dà il caso che non solo i linguisti, ma anche i burocrati sostengano il carattere «oggettivo» e «tecnico» della continuità burocratica; e gli economisti, dell'economia; e i giuristi, del diritto. E via seguitando. Ci ritroveremmo, alla fine, esattamente dove, secondo alcuni, ci troviamo: un alto grado di continuità tra fascismo e postfascismo, spiegato come un portato automatico delle cose, invece che come una scelta politica.


“la Repubblica”, 29 giugno 1977

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