Eccellente volumetto,
questo di Erasmo Leso, Michele A. Cortellazzo, Ivano Paccagnella e
Fabio Foresti, sul tema La lingua e il fascismo, costruito su
materiale e analisi di prima mano e introdotto da Luigi Rosiello. E
c'è da augurarsi che il Consorzio Provinciale Pubblica Lettura di
Bologna — che ha promosso prima queste conferenze, poi la loro
pubblicazione — abbia anche la possibilità di farlo circolare
(come merita un po' tutta questa bene avviata collanina, tra cui
segnalo da ultimo una corposa rassegna di testi e approcci
problematici su La scuola e il fascismo, di Giuseppe
Ricuperati).
Difficile rendere in
sintesi l'intreccio polivalente di osservazioni testuali, proposte di
ricerca e avvii di sistemazione critica, a proposito della lingua di
Mussolini (Leso); degli antecedenti della retorica fascista nel
Mussolini socialista (Cortelazzo); del maturare del linguaggio
politico di un oppositore, Eugenio Curiel, all'interno di un giornale
della gioventù universitaria fascista (Paccagnella);
dell'interrogativo circa l'esistenza e le modalità di una «politica
linguistica» del regime (Foresti). Anche per il recensore, è
d'obbligo rimandare ai testi.
Rilievi largamente comuni
ai vari autori sono comunque, innanzitutto, questi: la lingua di
Mussolini — oratore e giornalista — va posta al centro
dell'analisi sulla lingua del fascismo, anche se non siamo in grado
ancora di misurarne per intero il grado di irraggiamento sociale;
essa tende a porsi come un modello di "purismo" fascista,
che ammette tuttavia aree di non coincidenza con forme più
tradizionali di purismo linguistico; la lingua del Duce «non ha e
non vuole avere una funzione referenziale», «la parola è uno
strumento magico» (Leso), conta in quanto emoziona e persuade le
folle, non in quanto produca argomenti razionali rivolti al cervello
dell'individuo; perciò il lessico si riduce, mentre, la frequenza si
innalza; e «il rilievo sonoro è assolutamente prevalente sul
rilievo argomentativo, la musica del discorso assolutamente
prevalente sulla semantica del discorso»; tale processo di
«desemantizzazione» della lingua si incarna in un personaggio che
rappresenta biograficamente il «trait d'union» tra socialismo e
fascismo e il luogo di incontro di una serie di contrastanti, ma
convergenti eredità di sinistra e di destra (con inquietanti
problemi d'ordine generale, di cui i processi linguistici possono
fornire una buona spia, non naturalmente una ricognizione esaustiva).
Ogni autore fa la sua
parte nel volume miscellaneo, che io non voglio quindi sottoporre a
una lettura troppo schematicamente unificante. Dalla musica verbale
del discorso fascista — in cui il significato viene meno per
Paccagnella — addita una via d'uscita Eugenio Curiel: uno
scienziato «rosso», capace di restituire alla parola certezza e
potenzialità cognitive.
L'argomento stesso
conduce Cortelazzo a sottolineare fortemente la «mancata omologia
tra mutamenti ideologici e mutamenti linguistici» («il "colore
del tempo" così unitario e così forte da annullare ogni
differenza politica», come scriveva su La Repubblica Arbasino); e a
riferire tale asserzione, oltre che al trapasso dal prefascismo al
fascismo, a quello dal fascismo al postfascismo. Questo, sulla scorta
anche di uno stimolante studio di Andrea Battistini sui volantini
della Resistenza emiliana, da cui risulta che persino i testi
partigiani sono scritti in «lingua fascista»: sia perché una
lingua è un sistema, e come tale sopporta «usi» diversi ma
presenta un forte grado di continuità interna; sia perché, se si
vuole comunicare — come è necessario per un movimento che voglia
essere popolare — bisogna passare attraverso codici preesistenti e
diffusi, dosando con prudenza le innovazioni.
I miei dubbi di
non-linguista vertono tutti attorno a questa mancata omologa tra
mutamenti ideologico-politici e mutamenti linguistici. Bisogna dire
che i nostri autori alternano gravità e perfidia nel garantire ai
non addetti che la sorpresa è fuori posto e che si tratta di una
legge interna della lingua di cui non si può che prendere atto. A me
pare che qui si apra una frana che travolge ogni possibile alterità
— non solo linguistica, e non solo nella Resistenza —,
illustrando con una patente culturale il trasformismo come necessità
politica di ogni politica di massa. Mi chiedo se così la lingua non
diventi un po' come lo Stato di Nenni nei giorni del primo
centro-sinistra: qualcosa di neutrale, da sottoporre all'uso proprio,
dopo averlo sottratto all'uso altrui, una volta entrati nella stanza
dei bottoni (questa volta, linguistica).
Quando,
indifferentemente, si diviene depositari dell'ordine e della
rivoluzione; la Patria è la mia e gli obiettivi tutti «fatidici»,
mi domando: non è che queste operazioni di ricalco linguistico siano
pericolose e ambigue? Non è che la constatazione «tecnica» di uno
stato di necessità — la vischiosità dei processi linguistici —
finisca per coprire anche delle scelte «politiche» povere di carica
alternativa?
Sui rapporti tra momenti
storici di rottura e lingua ne vorrei sapere di più, prima di
deporre ogni obiezione di coscienza a questo stato di necessità.
Quanto e come il nuovo viene a patti con il vecchio, comunicando
tramite il codice dato? Quanto lo innova e lo redime, e quanto ne
viene invece esso stesso condizionato e connotato? Perché si dà il
caso che non solo i linguisti, ma anche i burocrati sostengano il
carattere «oggettivo» e «tecnico» della continuità burocratica;
e gli economisti, dell'economia; e i giuristi, del diritto. E via
seguitando. Ci ritroveremmo, alla fine, esattamente dove, secondo
alcuni, ci troviamo: un alto grado di continuità tra fascismo e
postfascismo, spiegato come un portato automatico delle cose, invece
che come una scelta politica.
“la Repubblica”, 29
giugno 1977
Nessun commento:
Posta un commento