Pietro Ingrao (a sinistra) con Umberto Terracini |
Guardarsi
alle spalle per riflettere su una vita intensamente politica, per
raccontare le virtù di un mondo ma soprattutto e impietosamente i
suoi «peccati», gli errori. In una confessione pubblica che non
cerca assoluzioni ma ragioni. Pietro Ingrao manda in libreria Volevo
la luna (Einaudi, pp. 376, euro 18,50) più che un'autobiografia
un percorso di ricerca in cui racconta se stesso «come parte di un
soggetto che si sentiva protagonista del mondo e del suo
cambiamento». Il soggetto è il movimento comunista - meglio, il
comunismo italiano - che è il centro di tutta la narrazione. Con i
suoi problemi aperti.
Il
ripensamento autocritico è il filo conduttore di tutto il libro.
Cosa hai voluto trasmettere con questo tuo lavoro?
La
sensazione molto netta di una sconfitta di cui mi convinco alla fine
degli anni Settanta, con la necessità di ragionare a fondo sulla
nostra storia e sulla realtà, per riaggiornare le nostre categorie e
riflettere sul soggetto politico. Dovevamo ridisegnare le nostre
«mappe».
Vuoi
dire che soltanto nelle sconfitte si può arrivare a scorgere le
verità e a poterle dichiarare?
È
un'affermazione troppo secca, anche se forse per alcuni è
così. Per me c'era il farsi strada della convinzione netta di una
sconfitta concreta e drammatica. Pensa a che colpo fu per noi
l'occupazione sovietica di Praga del 1968 che poneva fine a un
tentativo di rinnovamento democratico del socialismo che noi in
Italia sostenevamo. Tutto il nostro mondo era in subbuglio da tempo e
noi eravamo un po' fermi nell'elaborazione. Con il '68-69,
soprattutto in Italia, viene messo in discussione il concetto di
rappresentanza - per quanto riguarda il sindacato nei metalmeccanici
il processo è addirittura travolgente - e da lì sorge in me una
domanda che riguarda l'agire politico in generale. Non solo cosa fa
il Partito comunista italiano o cos'è l'Unione sovietica, ma proprio
che cos'è la politica, più nel profondo la convinzione che il
soggetto rivoluzionario sia, come scrivo nel libro, «un farsi del
molteplice, l'incontro fluttuante di una pluralità oppressa che
costruiva e verificava nella lotta il suo volto». È qualcosa di più
di una critica da sinistra dello stalinismo.
Il
'68-69 sembrava essere una grande occasione che non annunciava
nessuna sconfitta, anzi. Perché questa «occasione» non è stata
colta dal Pci e, per esempio, non ti ha impedito di commettere - le
parole sono le tue - un errore grave come la radiazione del gruppo
del manifesto? Perché ha prevalso il primato della fedeltà
all'organizzazione?
Perché io
non credo al minoritarismo. Con i compagni del “manifesto” c'era
e c'è sempre stato un grande rapporto di solidarietà e amicizia, ma
mi è parso che non ci fosse da parte loro una proposta valida sul
tema del soggetto politico. Mi ricordo le discussioni con loro. Io
conoscevo bene il Pci e avevo detto a loro: «Vi mettono fuori». Ma
entrando più nel merito non trovavo in quella che facevano una
proposta chiara sul soggetto da mettere in campo. Purtroppo, per
parte mia, commisi l'errore pesante e assurdo di votare la loro
radiazione. Questo limite nella costruzione di un nuovo soggetto
politico l'ho poi ritrovata in voi del manifesto, compresa
l'esperienza che ho vissuto nella Rivista degli anni '90. Un
minoritarisimo di testimonianza che non mi ha mai persuaso.
Quindi
la tua autocritica è essenzialmente etica, come di fronte a un
peccato...
No, non
faccio valutazioni morali. Fu un doppio errore, il mio. Il primo
senza dubbio umano, abbandonavo i miei amici. Soprattutto la
radiazione fu una scelta politicamente stupida, non apriva una
discussione positiva, non faceva avanzare la coscienza comune
valutando e comprendendo le ragioni del dissenso in campo.
Però
allora ci fu una grande discussione nel Partito comunista, in tutte
le federazioni, gli atti furono pubblicati...
Ma era già
tutto stabilito dall'inizio, quella discussione fu solo una
formalizzazione di una decisione già presa. Invece bisognava usare
quella frattura per misurarsi con la crisi del leninismo. Tale era il
nodo da affrontare.
A
proposito di leninismo, sempre nel passaggio sul “manifesto”, tu
parli di fare i conti «con il suo doloroso tramonto». Quel
«doloroso» sembra quasi un lamento, come a dire che bisogna
ammettere quel fallimento ma che si è in presenza di un'assenza di
alternative, di fronte a un vuoto.
Dire che non
c'era alternativa è troppo povero e alla fine inutile: ma
sicuramente il cibo di cui ci eravamo nutriti non era più
utilizzabile. Tutti sapevamo che nell'Urss non c'erano più
interlocutori. Ma il vuoto di cui tu parli è più forte proprio in
assenza di una riflessione sulla necessità di creare un nuovo
soggetto che sia frutto della «molteplicità» di cui parlavo prima.
Il
«molteplice» prevede un grande senso della democrazia non solo come
serie di regole da rispettare, ma soprattutto come pratica, a partire
dal rispetto del dissenso. Era proprio così impossibile, prima degli
anni '70, permettere la manifestazione del dissenso fuori da
ristretti gruppi dirigenti?
Di fatto è
stato così. Chi dissentiva la pagava duramente, fino a metodi
polizieschi, soprattutto nella vecchia guardia. Come scrivo nel mio
libro erano tempi difficili...
Tempi
difficili ma molto «pieni». Oggi magari sono più facili ma forse
ti appaiono più «vuoti».
La domanda è
provocatoria perché si potrebbe accusare un vecchio come me di
nostalgia per la sua gioventù. Io però non voglio cancellare un
grande fatto che ha segnato l'Italia: noi siamo stati sconfitti, ma
abbiamo vissuto una stagione straordinaria, che ha fatto crescere
un'esperienza di milioni di persone che hanno fatto politica
cambiando il paese, democratizzandolo. E, poi, il nostro orizzonte
non guardava solo all'Italia: eravamo parte di un «mondo» e di una
pratica collettiva alta e vitale in tante parti del pianeta. Quando
sono andato in Vietnam e sono sceso nelle città sotterranee
costruite per sfuggire ai bombardamenti americani, io in quei
cunicoli bui divisi da muri di fango mi sentivo in uno spazio aperto
e illuminato da una lotta creativa. Oggi, a volte, l'orizzonte della
politica mi sembra diventato più piccolo e angusto.
Ma
allora il tuo dirti comunista ancor oggi, nonostante la sconfitta,
gli errori e le autocritiche, è legato più a questo passato che
all'oggi?
Noi - quelli
della mia generazione - non siamo riusciti a trovare la risposta alla
crisi indiscutibile del leninismo-stalinismo. E, prima di tutto per
questo, siamo degli sconfitti. Però, da un lato in questo paese ci
sono state milioni di persone che sono cresciute anche culturalmente
nella lotta politica e che sono state una parte decisiva
dell'esperienza democratica italiana; d'altro canto oggi continuo a
vedere milioni di oppressi nei drammatici mutamenti della
globalizzazione. E, poi, vediamo il riemergere apologetico della
guerra come realtà pressante e distruttiva che dilaga nel mondo,
mentre è stata cancellata dal vocabolario la parola disarmo: non c'è
più nessuno che la pronunci, nemmeno voi sul manifesto. Non ti
sembrano buoni motivi per continuare a dirsi comunisti e a lavorare
per la costruzione di un soggetto politico su scala necessariamente
internazionale?
Scusa
la digressione: tu hai ammesso nel tuo libro gli errori che hai fatto
rispetto al gruppo del manifesto. Quali errori commette oggi il
manifesto nei confronti dei suoi lettori e della sinistra?
Ma perché
mi fai questa domanda?
Perché
ci interessa l'opinione di un lettore importante che è stato anche
direttore di un giornale politico.
Va bene.
Allora diciamo che a volte - scusa l'impertinenza - sembrate una
setta aristocratica. E lo dico con tutto l'affetto possibile e
l'interesse per quello che scrivete.
Torniamo
al libro, al suo titolo, «Volevo la luna». La senti più lontana o
più vicina di un tempo quella luna, metafora di un mondo diverso?
Ti ripeto
che questo è un libro che racconta una sconfitta...
Ma non
pensi che questa tua ricerca lunga una vita sia stata in qualche modo
utile e fruttuosa?
Per gli
altri non spetta a me dire. Per me sicuramente è stata utile e
fruttuosa. La passione politica mi ha fatto capire il mondo ed è
diventata un pane necessario. La «luna» mi sembra ora un po' più
distante: non rispetto all'inizio del mio percorso, ma negli ultimi
anni mi pare essersi un pochino allontanata. Io sono arrivato alla
politica sotto la spinta di una necessità. Come tanti altri della
mia generazione e della mia estrazione sociale avrei voluto fare
altre cose - il cinema, per esempio. Poi sono stato spinto dagli
eventi, a calci nel sedere; e la guerra civile spagnola è stato il
momento di passaggio che mi ha trascinato nella lotta politica. Da lì
è cominciato un cammino che mi ha riempito di cose straordinarie,
che mi ha fatto uscire dal guscio dell'individualismo entrando in
comunicazione con milioni di esseri umani. Questa è stata
l'esperienza dei comunisti italiani. Però è andata in crisi la
forma che ha storicamente assunto il soggetto politico. Questo oggi
mi sembra pesante, persino doloroso, perché non vedo una risposta
all'altezza degli eventi che sono maturati. La mia generazione ha
pagato il prezzo di una forma restrittiva della molteplicità
(ricordi il mio discorso di prima?) dell'attore politico. Qui è
l'enorme, straordinario campo dell'innovazione. Il senso del mio
libro, alla fine, si riduce tutto nel fornire il mio piccolo
ragionamento per questa grande e nuova ricerca.
il manifesto
9 settembre 2006
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