Io sono un comunista che
non è mai stato togliattiano: o che, meglio, non ha fatto in tempo a
diventarlo. Sono stato iscritto la prima volta al Pci fra il 1952 e
il 1957: ammiravo molto Togliatti; ma non posso dire di aver subito
in profondità il suo innegabile fascino intellettuale. Non ho fatto
neanche in tempo a diventare un comunista stalinista: nel 1957 sono
uscito dal Pci perché non riuscivo ad accettare che l'invasione
sovietica dell'Ungheria rientrasse nel grande disegno della
liberazione mondiale dei popoli oppressi. Togliatti mi appare oggi un
personaggio lontano, quasi completamente estraneo alla mia cultura e
formazione politica. Questo non significa che non ne veda il ruolo
svolto nella storia italiana ed europea dell'ultimo quarantennio: e
su quest'ultimo punto vorrei avanzare qualche considerazione.
Qualunque sia oggi il
giudizio sul nostro passato, non v'è dubbio, mi pare, che Palmiro
Togliatti resti l'unico uomo politico comunista l'unico uomo politico
comunista dell'Occidente capitalistico che sia riuscito a coniugare
la prospettiva terzinternazionalista, e dunque l'adesione al quadro
staliniano, con l'accettazione piena, e a mio giudizio
incondizionata, della pratica della democrazia rappresentativa. Nel
fatto che abbia tenuto insieme le due cose, consiste altrettanto
indubbiamente la sua doppiezza. Ma la doppiezza fa parte ab imis
delle qualità del grande politico: ed essa, nel caso nostro, ha
funzionato da autentica virtù salvifica, se è vero, com'è vero,
che ne è derivato che il movimento comunista sia stato in Italia un
movimento di massa e non settario, prospettico ma concreto, con forti
tensioni rivoluzionarie ma profondamente riformatore. Tutti sanno ed
è inutile tornarvi su questa sede quali strumenti, mezzi ed anche
veri e propri espedienti egli abbia usato per raggiungere questo
scopo: la strategia delle alleanze, le aperture verso i cattolici, la
politica verso gli intellettuali, l'opzione culturale
storicistico-marxista (con forti simpatie crociane), la pubblicazione
delle opere di Antonio Gramsci in funzione antizdanoviana;
accoppiando tutto questo con un senso preciso del carattere mondiale
della rivoluzione socialista sotto il segno della solidarietà
all'Unione Sovietica e dell'unità indefettibile e intoccabile,
ideologicamente fondata, del Partito.
Su ognuno di questi punti
la discussione ovviamente è aperta (per taluni di noi, come ho
detto, è aperta ormai da trent'anni) e il rifiuto può essere
legittimamente assai netto. Ma sul lungo periodo io credo Togliatti
verrà ricordato, più che per la sua adesione strategica allo
stalinismo, per il capolavoro tattico, che gli ha consentito di
edificare una struttura e una tradizione di partito comunista
italiano dai caratteri tanto peculiari rispetto agli altri partiti
fratelli europei da costituire un unicum piuttosto che
un'anomalia. Alla fin fine, si tratta nelle grandi linee dello stesso
partito comunista con cui ancora oggi gli altri partiti italiani ed
europei fanno i conti: e la durezza dell'attacco portato al rapporto
dei comunisti di oggi con la tradizione togliattiana dimostra quanto
ancora questo nodo conti nella definizione di una nuova identità
comunista. Insomma: è vero, verissimo che spiegare non vuol dire
giustificare: ma bisogna stare attenti che non giustificare non porti
come conseguenza non spiegare (ed è quanto sta accadendo). Fare la
storia in campo politico è difficilissimo (com'è noto): l'unica
strada che comunque non si può imboccare è quella che piega il
passato al nostro presente. Non dimentichiamoci che non c'è nulla di
più staliniano di un uso strumentale dei personaggi e delle vicende
della storia: e questo stalinismo del pensiero è riaffiorato qua e
là nelle uscite polemiche di molti commentatori anche di
liberalissime persuasioni. Insomma, si può fare della storia
staliniana anche nei confronti degli stalinisti. Ora, poniamo che i
comunisti italiani, facendo oggi i conti con il loro Togliatti, si
trovino a sviluppare fino in fondo quella pratica della lotta
democratica, che in lui si trovava avvolta, o meglio implicata, nella
corteccia della strategia staliniana: le strade che si aprono sono
due. O il disvelamento e il compimento della componente democratica
della lezione togliattiana portano in prospettiva alla dissoluzione
della stessa identità comunista; oppure l'avventurarsi fino in fondo
sul terreno della democrazia, e una pratica radicale di essa,
conducono alla scoperta di nuove frontiere del conflitto, ad una
rinnovata, moderna critica della democrazia capitalistica, a
concepire, elaborare e praticare nuove forme dell'opposizione e del
governo, ad un allargamento dell'orizzonte stesso della democrazia,
ad una profonda riforma della politica stessa e del sistema dei
partiti, ad una nuova cultura politica antagonistica (libertà,
diritti, espansione delle soggettività, qualità della vita, ecc.).
Sono due prospettive egualmente rispettabili, ma si deve sapere che
sono molto diverse. A me non par dubbio che il nuovo corso di Achille
Occhetto abbia inteso spingere il Pci ad imboccare la seconda strada:
quando l'ultimo Congresso indica come un obiettivo da raggiungere una
nuova autonomia culturale comunista, non indica, mi pare, un
obiettivo di dissoluzione ma di ri-costruzione, in un quadro non più
soltanto italiano, ma europeo. Un modo concreto, e non verboso, di
andare al di là dell'insegnamento togliattiano sarebbe, ad esempio,
quello di rimettere le mani nella macchina Partito, restata, questa
sì, sostanzialmente togliattiana (e per tanti versi, dunque,
inadeguata, come spesso si vede, alla linea del nuovo corso). Qui
vorrei chiudere.
Il giudizio su Togliatti
non può essere dato oggi correttamente che in un quadro di relazioni
e confronti europei. La dissoluzione della vecchia doppiezza
comunista non si realizza in un contesto di certezze sostitutive, già
bell'e pronte, che sia sufficiente abbracciare per potersi dire nuovi
e di nuovo pronti per la lotta: la crisi del socialismo realizzato
corre parallela alla crisi della sinistra progressista europea. In
una situazione storica di lunga durata come questa, il tentativo
togliattiano di sviluppare una certa forma e visione della democrazia
non rappresenta l'ultima, singolare e, in questa chiave,
incomprensibile appendice del socialismo dell'Est ma una delle tante,
specifiche forme di concepire una strada di progresso e di
liberazione nelle condizioni date di una certa porzione
dell'Occidente capitalistico. Se questo fosse vero, il rapporto
critico (anzi criticissimo, come dicevo all'inizio, anche di
superamento, certo, all'accorrenza) con la tradizione e l'eredità
togliattiana non dovrebbe essere assunto prevalentemente nel senso di
cogliere e rigettare il tratto generico che la caratterizza, ossia lo
stalinismo, operazione che ognuno oggi è capace di compiere, quanto
di riprendere e sviluppare il suo tratto peculiare e inconfondibile,
ossia il tentativo (datato nei contenuti e nelle forme, ma tutt'altro
che disprezzabile concettualmente) di collegare un'opposizione di
massa e di classe ad un processo di trasformazione e d'inveramento
della democrazia. Questo potrebbe essere il contributo specifico dei
comunisti italiani (post-togliattiani, senza bisogno d'essere
anti-togliattiani) alla costruzione di una nuova sinistra europea.
“la Repubblica”, 2
settembre 1989
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