Benedetto Croce |
A leggere il titolo dell'
ultimo libro di Luisa Mangoni: Una crisi di fine secolo
(Einaudi), vien fatto subito di pensare che si tratti d'un
intervento, a caldo, su questi ultimi deludenti scampoli di secolo
xx. Invece, il secolo di cui si parla è l'Ottocento, la "crisi
di fine secolo" riguarda fondamentalmente il decennio 1890-1900.
Ma qualche analogia sussiste con la nostra condizione di ora, come
vedremo; e costituisce una parte non piccola dell'interesse, anche
appassionato, con cui quest'opera della Mangoni si fa leggere. I temi
di Una crisi di fine secolo sono fondamentalmente due: il
travaglio critico ed autocritico della cultura positivistica nel
periodo precedentemente indicato, e nei primissimi anni del secolo
XX; il rapporto tra cultura italiana e cultura francese, soprattutto
nell'ambito delle reciproche influenze per ciò che riguarda lo
svolgimento e l'approfondimento del primo tema.
Le tesi della Mangoni,
esposte con grande chiarezza e forza di persuasione, sono, innanzi
tutto, che tra cultura francese e cultura italiana si verifica
durante questo periodo un intreccio più fitto e complesso che in
altri momenti, all'interno del quale il tradizionale predominio della
cultura francese su quella italiana, pur mantenendosi, viene corretto
e integrato dalla rapidissima penetrazione in Francia di posizioni e
autori italiani (Lombroso, Sighele, Ferrero); e che, in secondo luogo
(ma questo costituisce effettivamente l'assunto maggiore e più
interessante del lavoro della Mangoni), la cultura positivistica
entra in questa fase in uno stato di "corrosione" interna
di fronte alle domande che lei stessa si era poste nel corso della
sua crescita precedente.
La questione non è di
poco conto, anche dal punto di vista di una problematica d'ordine
politico-culturale generale. Si potrebbe dire, infatti, che
l'esperienza del positivismo europeo anni 1870-90, anche per ciò che
riguarda il suo legame storico con la tradizione e l'eredità degli
ideali giacobini e rivoluzionari francesi (Libertà - Eguaglianza -
Fraternità), rappresenta bene il limite con cui si scontra
un'ideologia progressista e scientista ogni qual volta deve fare i
conti con una società le cui interne articolazioni, anche di ordine
intellettuale, da elitarie e circoscritte si fanno sempre più
complesse e sempre più difficilmente governabili. Non a caso,
nell'esperienza di questo positivismo autocritico, hanno un così
largo posto l'attenzione alla vita e ai caratteri della folla e delle
masse (Le Bon, Psychologie des foules; Sighele, L'intelligenza
della folla), e ai fenomeni di degenerazione psichiatrica sia
individuale che collettiva (ovviamente, Lombroso; ma anche Enrico
Ferri, Gabriel Tarde, e molti altri): sia l'una che gli altri -
profondamente intrecciati, del resto, fra loro - mettevano in forse,
infatti, una concezione rettilinea e progressiva dell'operare umano,
sollevando, dall'interno stesso dell'analisi positiva, i fantasmi dei
comportamenti irrazionali, delle eccezioni incomprensibili, dei
regressi che si sostituiscono ai progressi, dei lucidi programmi che
abortiscono nel caos e nella imprevedibilità, della disperata
constatazione che il più delle volte le "associazioni"
collettive (Parlamenti, Governi, Partiti) si comportano più
irrazionalmente o più inspiegabilmente dei singoli individui. Questa
crisi profonda degli statuti scientifici s'accompagna (e la Mangoni
segue con molta attenzione questo parallelismo) ad un'analoga crisi
delle tradizioni politiche della sinistra borghese radicale europea
(ma in sostanza, anche in questo caso, soprattutto francese e
italiana). Ciò che appare in discussione è la governabilità stessa
del sistema, in conseguenza soprattutto di due fattori: i limiti,
ideologici e sociali al tempo stesso, del ceto dirigente liberale e
radicale (scientista in gran parte, per l'appunto, e laico,
anticlericale, progressista); e l'incapacità di governare una
società, in cui la contrapposizione fra élites e masse si fa sempre
più bruciante, da parte del sistema politico costituzionale
liberale, soprattutto nelle sue espressioni rappresentative più pure
(anche qui, Francia e Italia).
La critica feroce del
parlamentarismo e la reviviscenza di simpatie cesaristiche - osserva
la Mangoni - non sono frutto del tutto di un atteggiamento
antipositivistico, ma al contrario maturano dall'interno di una
tradizione di pensiero positivistico, che marcia, forse senza saperlo
e senza volerlo, verso un redde rationem decisivo, su tutta la
linea. Quando, nel 1896, Ferdinand de Brunetière pronuncia la famosa
conferenza su La Renaissance de l'idèalisme, non si trattava
soltanto di riconoscere la portata storica di una crisi teoretica e
culturale; si trattava di procedere alla ricostruzione autocritica di
un intero sistema di pensiero, in cui "positivismo in crisi e
pensiero controrivoluzionario cattolico si alleavano", avendo,
ancora sullo sfondo ma già ben presente, un altro valore ripescato
come il nazionalismo. L'analisi della Mangoni è svolta con
un'eccezionale conoscenza delle fonti e con una invidiabile capacità
di cogliere le relazioni tra i diversi fenomeni, opere, personaggi.
Qualche perplessità può
destare la constatazione che, nell'approfondire la linea di discorso
in precedenza descritta, l'autrice sembri tenere poco conto di autori
e di discorsi, che negli anni passati si sono già cimentati a
testimoniare e studiare l'"autocorrosione" del positivismo
italiano. Penso, ad esempio, a Piero Bevilacqua, che nell'
introduzione a Governo e governati in Italia di Pasquale
Turiello (Einaudi, 1980), ha mostrato con grande precisione come dal
ceppo della critica post-risorgimentale (di destra) ai limiti del
parlamentarismo si possa arrivare in un breve giro di anni, ed in
effetti si arrivi, alla critica del parlamentarismo (linea
Turiello-Mosca, ed oltre); o a Lucia Strappini, che nella
introduzione a Scritti e discorsi di Enrico Corradini (Einaudi
1980), aveva già evidenziato la crescita dell'ideologia
nazionalistica dallo sviluppo estremo di alcuni ben noti miti
positivistici (attraverso la mediazione di Mario Morasso, giustamente
ricordato anche dalla Mangoni). Ma l'unica vera obiezione al discorso
di Luisa Mangoni riguarda le sue conclusioni, e cioè la deliberata
esclusione del giovane Croce e della genesi dell'idealismo italiano
dal campo dell'analisi, in base alla seguente considerazione:
"Concludere con Croce avrebbe significato... riproporre quello
che per tanti aspetti si andava rivelando come un luogo comune della
storiografia che fa di Croce l'artefice della sconfitta del
positivismo in Italia. Croce fu certamente il protagonista
dell'idealismo italiano, cui seppe dare una tradizione, una
sistematicità e una durata; ma il suo prevalere avvenne nei
confronti di una cultura già profondamente corrosa al proprio
interno...".
Ora, che il positivismo
arrivi al confronto con l'idealismo già corroso dall' interno, lo
abbiamo detto altre volte, e lo abbiamo ripetuto qui con piena
persuasione. Ma il discorso sulla crisi del positivismo non ci sembra
possa concludersi senza tirare in ballo il nome di Croce, sia perché
il giovane Croce è lui stesso il prodotto di quella crisi, sia
perché senza il suo pensiero e la sua agitazione quella crisi o non
ci sarebbe mai stata o si sarebbe indirizzata verso altri lidi. Basti
pensare che, in situazioni differenti, la via d'uscita dalla crisi
viene trovata non nel trionfo dell'idealismo ma in forme determinate
di positivismo logico e di relativismo scientista, che invece in
Italia vengono spazzate via insieme con la tradizione positivistica
pura (la storia della fortuna di Vailati è anche da questo punto di
vista altamente significativa). Oltre tutto, senza il giovane Croce è
difficile capire anche quell'altro essenziale punto della crisi, che
è rappresentato dall'intreccio fra il declino "interiore"
del positivismo e la complicata storia di ascesa e quasi
contemporanea crisi del marxismo, che contraddistingue anch'esso la
svolta di fine secolo. La mia persuasione, cioè, è che c'è un
periodo, forse di pochi, pochissimi anni, in cui l'intreccio
moltiplica vertiginosamente i suoi fili ed è quasi impossibile
(ancora impossibile) distinguere nettamente i due schieramenti.
Quando l'intreccio si scioglie, i giochi ormai sono fatti. Ma fino a
quel momento, la crisi è in atto, nel senso letterale del termine,
cioè su ambedue i potenziali versanti messi in gioco. Esiste un lato
"positivo" dell'"autocorrosione" del positivismo,
che non andrebbe sottovalutato.
La colpa storica di Croce
- e quindi la sua importanza grande nella delineazione di questo
processo - non è (ovviamente) di aver combattuto il positivismo, è
di aver sbarrato la strada alla "risoluzione" della sua
crisi, cioè di aver impedito che la sua crisi si svolgesse fino in
fondo, di averne sbarrato gli svolgimenti verso una concezione
moderna e avanzata del sapere. Per questo, ripeto, a me pare che non
si possa spingerlo verso i margini di questo discorso, senza
sottrarsi la comprensione di una componente importante del problema
stesso.
“la Repubblica”, 7
agosto 1985
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