ROMA
"Tavola rotonda"
su Belli e il comico, a conclusione del frequentato, fortunato
convegno internazionale di studi su G.G. Belli, romano italiano ed
europeo, che si è tenuto all'Università di Roma nei giorni
scorsi. Come ci si comporta quando ci si siede ad una tavola rotonda?
Prendendola sul serio, innanzitutto. Comportandosi con buona
educazione. Rendendo omaggio agli altri convitati che erano - nella
circostanza - tutti studiosi belliani di gran merito: da Franca
Angelini a Nino Borsellino, da Guido Almansi a Giulio Ferroni; e che
hanno dato luogo ad uno scambio di opinioni vivace e interessante
(accade, in certe tavole rotonde più fortunate o meglio preparate di
altre). E poi, prendendola alla lettera, la tavola rotonda alla quale
si è invitati. Se la tavola rotonda è su Belli e il comico,
che di Giuseppe Gioachino Belli e del comico si parli, senza uscire
dal seminato. È quello che hanno fatto - egregiamente - gli altri
commensali. Quanto a me, siccome ho poca competenza sul Belli,
pochissima sul comico, ho preso sul serio, alla lettera, soprattutto
la parola "tavola" (rotonda) ed ho intrattenuto gli astanti
(fin dove mi è riuscito) sul Belli a tavola, sul Belli e la cucina
romana.
L'ho fatto con l' aiuto
di un libro che non figura - credo - nelle bibliografie belliane
ufficiali, ma che ha incuriosito un po' tutti, e di cui tutti alla
fine mi hanno chiesto autore titolo e prezzo. Lo faccio volentieri,
cominciando dal titolo. La cucina di G. Gioachino Belli è
stato scritto da Vittorio Metz (protagonista a suo tempo del mitico
“Bertoldo”) e disegnato da Attalo (disegnatore a suo tempo del
mitico “Marc' Aurelio”), e pubblicato dalle "Edizioni del
gattopardo" nel 1972. Quanto al prezzo, si tratta di un libro
impagabile, perché introvabile, salvo che su qualche romana
bancarella. Cosa ha fatto quel grande umorista che è stato Vittorio
Metz, con l'aiuto di quel grande disegnatore che è stato Attalo, in
questo libro? Ha isolato una ottantina di sonetti in cui il Belli
parla - magari incidentalmente - di cibi, di cucina, e li ha
commentati. A volte vien fuori una sorta di archeologia gastronomica,
degna della rivista “La Gola”. Metz cerca di intuire come, di che
cosa dovevano essere fatte le pietanze alle quali Belli si riferisce,
e ne ricostruisce la ricetta. Abbiamo quindi le indicazioni per farci
a casa - se abbiamo ingredienti, tempo e voglia - il "timballo
di riso con le regaglie" e i "maccheroni con broccoli
romaneschi""; la "coda alla vaccinara" e la
"pagliata di vitello al forno"; la "porchetta alla
sprocedata" e la "coratella d' abbacchio con carciofi";
la "frittata di ranocchie" e la "frittata rognosa"
(ottima, pare): come si facevano, come si mangiavano ai tempi del
Belli.
A volte vien fuori,
invece, una sorta di fantaculinaria, di fantagastronomia. Come
quando, in presenza di un sonetto (La Madonna de la basilica
libberriana) in cui il Belli accenna appena alle uova al tegamino
("finirà come er pranzo d'un par d'ova") e Vittorio Metz
ne ricava una lunga, esilarante dissertazione su come le uova al
tegamino vanno cucinate. Ognuno che ci abbia provato sa quant'è
difficile questa semplice impresa. Ma non sapevamo - proprio no - che
esiste una teoria culinaria secondo la quale per cuocere due uova al
tegamino ci vogliono tre persone. Una che fa sciogliere il burro nel
tegame, ed altre due - ferme ai suoi fianchi - che le porgono, con
perfetta tempestiva sincronia, le due uova - prima le chiare, poi i
tuorli - da far cuocere al tempo e al modo giusto. Evidentemente ci
troviamo di fronte ad una scena, anzi ad una sceneggiatura da
commedia all'italiana.
Ma, a proposito, quanto
deve la commedia italiana al "commedione" del Belli? Non
esiste per caso una linea sottile, che riemerge intorno alla tavola
dove sono seduti, assieme, G.G. Belli e Alberto Sordi, il Sordi che
affronta coraggiosamente un minaccioso piatto di spaghetti:
"spaghetti, me te magno"? Certo che c'è una linea -
grassoccia - che congiunge la Roma di oggi a quella del Belli. Perché
è nel Belli che troviamo descritta quella "sindrome
gastroerotica" che è tipica della "cultura" romana e
della commedia cinematografica alla romana, all'italiana. "Hai
fatto er pane in casa, eh, pacchiarotta" - dice un giovanotto
belliano ad una prosperosa ragazza. E intende dirle che lei ha dei
seni abbondanti come pagnotte di pane (altrove, croccanti come dolci
casarecci: "je scrocchieno le zinne come frappe"). E
intende farle sapere che lui vorrebbe divorarle queste pagnotte,
queste opime frappe.
Va da sé che questa vena
culinaria, cannibalesca, gastroerotica non è che una parte
(probabilmente minore) della vena poetica del Belli. Che è un genio
immenso, a volte inconsapevolmente tragico. Che non stava sempre a
tavola. Che camminava per le strade e vedeva notava descriveva molte
altre cose. Di cui intorno alla tavola rotonda in questione hanno
parlato gli altri.
Le cose più seriose le
ha dette Giulio Ferroni, che ha spiegato e rafforzato un ampio schema
di interpretazione formale della poesia belliana. Questo schema era
stato disegnato nel corso della mattinata da Cesare Segre ed occupava
la lavagna dell'Aula prima della Facoltà di Lettere per cinque metri
e venticinque centimetri. Le cose più eleganti le ha dette Franca
Angelini, che ha parlato dello sbarramento di negazioni che il Belli
oppone alla realtà della sua plebe romana: la quale è "quello
che non ha". Le cose più stimolanti le ha dette Nino
Borsellino, che ha ricongiunto Gioachino Belli a tutti i temi ed i
problemi - sono tanti - del comico, del satirico, del tragico. Le
cose più scandalose le ha dette Guido Almansi, che ha parlato del
rapporto verità-menzogna in Belli, sostenendo che per il Belli la
verità è - con rispetto parlando - una "cacarella", una
forma di incontinenza sfinterica. Mentre la vita sociale ci impone -
e il Belli lo sa - un prudente contenimento della verità, un accorto
uso della bugia.
È intervenuta anche una
astrologa - Maria Grazia Barucci - autrice di sonetti "belliani"
sui segni zodiacali, e ne ha letto uno, dedicato alla Vergine, sotto
il cui segno Belli è nato. Ciò che spiegherebbe la natura del suo
temperamento, la qualità della sua poesia. Può darsi. Con G.G.
Belli romano italiano ed europeo, tutto è possibile.
“la Repubblica”, 17
novembre 1984
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