Il domenicale del Sole 24
Ore ricorda Villaggio interrogando il passaggio più celebre di un
suo celebre film. L'interpretazione è convincente. Posto qui un
ampio stralcio dell'articolo di Claudio Giunta. (S.L.L.)
Per capire bene la
pernacchia alla Corazzata Potëmkin, nel Secondo tragico
Fantozzi, prima libro (1974) poi film (1976), bisogna darle un
minimo di contesto, altrimenti si montano delle querelle culturali
(Villaggio contro Ejzenštejn, il cinema popolare contro il cinema
d’autore, l’insulto alla memoria di un film che non è affatto
«una cagata pazzesca») che non stanno né in cielo né in terra.
Quarant’anni fa c’erano
in Italia due cose che oggi non ci sono quasi più. Prima cosa: la
grande azienda “buona” che pensava non solo alla vita lavorativa
dei suoi dipendenti ma anche alla loro crescita culturale e morale, e
quindi organizzava il loro tempo libero inventandosi conferenze, gite
aziendali, cineforum. A Villaggio, ex impiegato Italsider, non doveva
mancare quel genere d’esperienza.
Seconda cosa: il
dibattito e gli intellettuali da dibattito, che venivano presi sul
serio e ascoltati dagli aspiranti intellettuali e dai
non-intellettuali, che non capivano e si annoiavano ma non avevano il
coraggio di dirlo. All’intersezione tra questi due mondi,
l’azienda-madre e l’intellettualità, sta il professor Guidobaldo
Maria Riccardelli, il quale è due cose insieme: uno dei capi
dell’azienda in cui Fantozzi lavora e un intellettuale cinefilo,
cioè uno che sa che il Doktor del film è Caligari e non Caligaris e
che pronuncia Griffith “come si pronuncia”, cioè in modo (per
Fantozzi) inintelligibile. Questa seconda natura di Riccardelli (il
suo essere professore) è più importante della prima (il suo essere
dirigente) [...] Perciò non li costringe soltanto alla visione della
Corazzata ma poi, dal palco, li stimola al dibattito.
Mentre non si possono
intellettualizzare il ciclismo, o il biliardo, o lo chemin de fer, si
possono certamente intellettualizzare i film, se ne possono
amplificare retoricamente i dettagli (l’occhio della madre, la
carrozzella col bambino), li si può avvolgere con parole
incomprensibili e idee orecchiate in qualche saggio para-accademico
(il «montaggio analoggico» del povero Calboni). Il bersaglio non di
Villaggio ma – bisognerebbe dirlo più spesso – di
Villaggio-Salce-Benvenuti-DeBernardi è soprattutto questo: non il
Capitale, non Ejzenštejn, bensì l’uso retorico e autoritario
della cultura. [...] Insomma, non siamo molto lontani dall’aria del
tempo còlta da Moretti in Io sono un autarchico con la
battuta «No, il dibattito no!»; ma gli sceneggiatori di Fantozzi la
colgono con due anni d’anticipo, e parlano a nome del Popolo, non a
nome di un altro intellettuale autoironico. Controprova: il Popolo ha
mandato a memoria la scena della Potëmkin, e l’adopera ancora
adesso come arma contro gli intellettuali da cineforum, oggi
trasferitisi nel web.
“Il Sole 24 Ore –
Domenica”, 9 luglio 2017
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