[1965]
Passavo accanto al muro
dell'Arena, dove la lapide per i fucilati di vent'anni fa. La lapide
è nuova, ci sono voluti vent’anni per poterla mettere. Una
generazione, più o meno. Invecchierà rapidamente e andrà a
raggiungere lo sterminato lapidario storico. Sotto il muro, lavori
sono in corso: per scavare la terra, gli operai hanno sollevato, una
sì l’altra no, grandi lastre di pietra che hanno all’incirca la
misura di una persona.
Veramente dobbiamo essere
riconoscenti alle celebrazioni ventennali. Esse giungono alla svolta
d'una generazione. D’ora innanzi, tutti avranno diritto di parlare
del 25 aprile del 1945 come si parla delle Cinque Giornate del 1848;
molti lo facevano già, ma senza averne il diritto. Dobbiamo essere
grati a questa rara occasione se misuriamo, mentre tutti cerchiamo di
ricordare, l’impossibilità di ricordare veramente. Mi avviene di
leggere, in questi giorni, la frequente domanda: in che misura
abbiamo adempiuto il desiderio dei combattenti di allora e dei
caduti? Avremmo dovuto sapere, se non allora almeno ieri, che la
storia non adempie mai i desideri ossia li adempie in tempi e modi
che li rendono irriconoscibili e che «non questo volevo» è la
parola che accompagna ogni vittoria. Al di fuori dei concreti,
immediati desideri e bisogni - che la guerra finisse, che il pane
tornasse, fosse viva la madre, umiliato lo sgherro, resistesse la
carne alla paura, raggiunto sotto il fuoco il muro che ripara,
colpiti dal miracolo gli uomini del plotone che mirano ai tuoi occhi
— che cos’erano quei desideri e quelle volontà se non la
generica libertà che realmente siamo arrivati a possedere? Eccetto
che per pochi, non sembrava, questo purgatorio di oggi, un paradiso?
Così (dice presso a poco Amleto) il pensiero della morte ci fa vili.
La miseria del presente ci impedisce di vedere quella del domani.
L'ospite ingrato. Primo e secondo, Marietti, 1985
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