17.7.17

Mio marito Bertrand. Intervista a Dora Russell (Laura Lilli)

Bertrand Russell e Dora Black (non ancora Russell) negli anni Venti in Cina
CARN VOEL (Cornovaglia) -
"Ah, è arrivata finalmente. Sì, avevo telefonato alla stazione di Penrance, e sapevo che il treno era in ritardo. Ma sa, aspettando, il tempo non passa mai. Scusi se non mi alzo per salutarla, mi sono fatta male a una caviglia. Meno male che non scriviamo con i piedi".
Dora Russell ride della sua battuta. Ha 91 anni e, dopo un lungo "libero amore", per dodici è stata la moglie di Bertrand Russell. Ha una lieve striatura bianca sui capelli ancora rossi, uno sguardo penetrante dietro gli occhiali. Da poco è uscito il terzo e ultimo volume della sua autobiografia che si intitola The Tamarisk Tree, l' albero di tamerice (Virago, pagg. 372, sterline 5,95).
"Cresceva nel mio giardino quando era piccolo, ed era per me un oggetto incantato. Nella mia gioventù è stato il simbolo delle mie aspirazioni, e in questa autobiografia sta proprio a simboleggiare ideali e sogni che ho inseguito. È anche l' albero da cui, si apprende nella Bibbia, la manna cadde sugli ebrei...".
Dora Russell è seduta a una scrivania gremita di carte in disordine. Sta leggendo due libri di Ronald Englefield sul linguaggio e la mente. "Mente", borbotta, "ora la chiamano mente, come se fosse una cosa diversa dal corpo, insufflata da Dio. Noi parlavamo di 'cervello', ed era solo una parte del nostro corpo. Vogliono far fuori anche Darwin, adesso. Ma il fatto è che noi siamo una specie in cammino, siamo animali. Mi scusi, magari lei è religiosa e offendo i suoi sentimenti. Ma si sieda, dunque".
A fatica mi ritaglio uno spigolo di divano-letto in questo piccolo studio pieno come un uovo. Oltre all'ovvia montagna di libri, ci sono bamboline russe, indirizzari politici, paralumi fatti all'uncinetto. Per giunta arriva anche il tè. Il vassoio viene appoggiato in equilibrio incerto, su uno sgabello. È stato un po' lungo arrivare qui, dove comincia la minuscola penisola di "Land's end" (fine della terra), ultimo lembo di Cornovaglia prima dell'Atlantico. La campagna è verde bandiera, cintata di siepi verde scuro: scogliere più o meno a picco si spalancano all'improvviso fra i campi, mostrando porti turistici e porti di pescatori, "cottages" bianchi e celesti dai tetti d'ardesia. Ma appena scompare il mare, la campagna appare deserta, abitata solo da corvi e gabbiani, o da mucche che rientrano alla fattoria (bisogna spegnere il motore e farle passare, sono 150, e ad ognuna il tassista dà una amichevole pacca e rifà il verso: "Mmmm"). In un campo - chiamato "la fattoria maledetta" - diciannove grosse pietre stanno piantate verticalmente in circolo, nessuno sa perché. "Un contadino che provò a spostarne una fu trovato morto nel letto", mi racconta il tassista. "Eh, abbiamo un sacco di leggende qui". In ville invisibili dalla strada, abitano John Le Carrè e Daphne Du Maurier. Emily Bront ha vissuto a lungo nella cittadina di Penrance, dove la linea ferroviaria finisce. In questa atmosfera favorevole alle storie di spettri e di spionaggio, in un "cottage" dall' aria non certo opulenta, vive, con la sua famiglia, la novantunenne "ragazza del Novecento" che è Dora Russell.
Si dice che in vecchiaia le drastiche e focose opinioni della giovinezza si attenuino, domate dall'esperienza e dal buon senso. In Dora Russell di domato non c'è niente: dalla rabbia nei confronti di "Bertie" (che l'ha lasciata per "un'altra del Comitato") all'amore per la Russia sovietica (che visitò "in barba a Bertie e a tutte le autorità inglesi, nel '20"), all' ostilità per gli Stati Uniti: "Ci andai per la prima volta durante la guerra (la prima guerra mondiale - ndr) con mio padre. Mi avevano detto che erano nostri cugini, ma io capii subito che erano nostri nemici. Sono anche molto maleducati. Non è ammissibile un'arroganza come la loro, specie contro l'Unione Sovietica. Il piano Marshall aiutò tutti i paesi distrutti dalla guerra, in Europa, ma i russi no. E ora gli hanno puntato contro tutti quei missili".
"Ammetterà che c' è un bel numero di SS/20 puntati contro l' Europa...".
"L'hanno dovuto fare per forza, per difendersi. Ormai, certo, litigano da tutte e due le parti, ma i primi a cominciare sono stati gli americani. E l' Inghilterra dietro. Ma io li ho sentiti parlare, i sovietici, ho sentito le cose meravigliose che volevano per l' Umanità e per la Russia...".
"Il Venti è lontano, non le sembra? E non le pare che ci sia un qualche problema a proposito della libertà, in Unione Sovietica? Non crede al Gulag?".
"Certo che ci credo. L'hanno sempre fatto, anche con gli zar. Hanno solo continuato. E allora? Anche noi, coi boeri, non siamo certo stati teneri".
"Come andò nel ' 20 in Unione Sovietica? L'Inghilterra, all'epoca, era molto attiva contro la rivoluzione russa, si impegnò con i "bianchi"...".
"Eh, già, io e Bertie eravamo insieme a Parigi, dove io studiavo i filosofi del diciottesimo secolo - avevo davanti a me una notevole carriera universitaria, e non era facile per una ragazza, a quei tempi - e Bertie fremeva per andare in Urss. 'Dobbiamo farlo', ripeteva. Mentre diceva questo gli arrivò un invito di una delegazione del Labour, che era riuscita a ottenere il permesso inglese e il difficile visto sovietico. Bertie naturalmente accettò. Io non ero invitata, e ne fui offesissima. Bertie disse: "E' meglio che tu non venga, sono posti pericolosi per una ragazza". Questo mi fece infuriare ancora di più. Dieci minuti prima che arrivasse l' invito, non c' era pericolo... Avrei dovuto continuare a studiare, ma la rabbia era troppa".
"E allora?"
"Tornai in Inghilterra e cercai tutti i possibili modi clandestini per varcare quella frontiera. Mi mandarono a Stoccolma. Lì un signore mi disse: "Possiamo fare un viaggio con un battello a vapore intorno a Capo Nord, dopo potremo mescolarci alla gente che va in Russia alla Conferenza Internazionale". E così, con un battello di pescatori, approdammo a Murmansk, durante l'estate del '20. Di lì andai a Leningrado dove incontrai John Reed, poi a Mosca...".
"Ma lei è comunista?".
"Nient' affatto. Ma sono molto dalla parte dei Russi, e penso che gli americani siano sempre stati sleali con loro".
"A Mosca incontrò Bertrand Russell?".
Ride e strizza gli occhi. "No. E questo è il bello. Perché lui era già tornato a Londra, ed era preoccupatissimo non sapendo dove ero finita".
"Con lui poi andò anche in Cina, no?".
"Eh, già. Lui continuava a chiedermi di sposarlo, e io a rifiutare. Sa, eravamo ragazze libere, credevamo nel libero amore, non volevamo impigliarci nella rete delle leggi matrimoniali... Comunque andammo in Cina. Lui era stato invitato a tenere conferenze di filosofia e matematica, ma parlai anch'io: di politica, di libertà sessuale e di diritto alla felicità. A un bel momento rimasi incinta. Dovetti capitolare. Ci sposammo. I cinesi chiamavano le loro libere unioni, che cominciavano, 'matrimonio alla Russell'".
"E come l' aveva conosciuto, Bertrand Russell?".
"A Cambridge. Mi avevano chiesto di portargli un tavolo pieghevole da Londra (io andavo e venivo). Per ringraziarmi, mi mandò un biglietto invitandomi per il tè. Andai e lo trovai con una vestaglia a fiori che gli dava un'aria molto settecentesca. Non poteva vestirsi perché si era rotto una costola cadendo nell'inseguire un autobus. Parlammo del matrimonio in generale, e gli espressi le mie opinioni anticonformiste. Mi chiese cosa ne sarebbe stato dei figli, nel mio "disegno". Risposi che essi dovevano essere curati e mantenuti solo dalla madre. Il padre non ci doveva entrare. Lui disse: 'Se mai dovessi fare un figlio, non sarebbe certo con lei!'. Avrei voluto rispondere che nessuno gli aveva chiesto niente, ma mi trattenni. La stessa estate, Russell mi invitò a trascorrerla con lui - un legame libero - a Littlewood, dove si tenne un lungo seminario e dove fummo felici. Eravamo una piccola comunità che studiava, parlava dello spazio e del tempo, riceveva visitatori come George Trevelyan. Soprattutto, ci amavamo. Ma un bel giorno arrivò sua moglie - lo sapevo, naturalmente, che era sposato, ma mi aveva detto che non l'amava più - e lui mi pregò di far fagotto in poche ore". Così, riprende, "il mio dilemma studio/amore mi pareva risolto. Avevo subìto un'umiliazione cocente, ma almeno... Tornai a Parigi. Bertie mi raggiunse dopo poco, giurandomi amore, dicendo che presto avrebbe ottenuto il divorzio. Mi chiese di sposarlo, e per convincermi, mi offese ancora di più: 'Non vuoi diventare una nobildonna?' mi chiese. A me, contessa... Io, poi, non avevo mai pensato a lui come al futuro conte Russell. Poi le cose andarono come andarono...".
La porta dello studio si apre e un signore sui sessantacinque-settant' anni fa capolino. È John Russell, il figlio concepito in Cina (Dora poi ne avrà altri tre, con un secondo marito). Segue una breve conversazione a proposito di come procurarsi delle sigarette al villaggio. John, a sua volta sposato e con figlie, ebbe un rapporto molto difficile con suo padre: tanto che finì anche in una casa di cura per malattie mentali. Quando ne uscì, la madre, che non era più sposata con "Bertie", volle che "prendesse parte alla vita della società nell'unico modo possibile per lui: occupando il suo seggio alla Camera dei Lords. Non sapendo quale procedura dovesse seguire, Dora racconta nell'autobiografia che un giorno si presentò con John alla Camera Alta, dalla porta destinata al pubblico. "In che modo", chiese all'usciere, "un Lord prende possesso del suo seggio?". "Quale Lord?" domandò l' usciere. "Questo", disse Dora indicando il figlio. Il quale riuscì effettivamente a sedersi, per qualche tempo, fra i Pari d'Inghilterra. Uscito John dalla stanza, le chiedo come e perché divorziò da Bertrand Russell. "Il giorno dopo la bomba di Hiroshima fondammo, a Hampstead, il Comitato per la Pace e il Disarmo. I grandi nomi si associarono tutti. C'ero anch'io e c'era anche Bertie: ma si era messo con quella Edith. Così io me ne andai. Lei era una figura in vista nel movimento, ma non più di me...".
"Anche se ormai non eravate più insieme, vi influenzavate l'un l'altro in qualche modo? Sul pacifismo, sul diritto alla ricerca della felicità, sulla 'Beacon Hill', la scuola che per tanto tempo avevate condotto insieme...?".
"Bertie era un pacifista molto attivo, fece anche quel manifesto con Einstein: però era stato troppo in America, non fu mai equanime nei confronti dei sovietici. Quanto a me, avevo in mente i pensieri che hanno le donne: noi facciamo i figli e loro ce li ammazzano con la guerra. Lui era molto più astratto. Così misi in piedi la "Carovana delle donne per la Pace", e le madri di tutto il mondo accorsero. Anche dall'Italia, sicuro. Attraversammo tutta l'Europa, fino all'India. Io, che non volevo avere figli, me ne sono trovati poi quattro, e perciò mi sono messa dalla parte delle madri".
Sto per aprire bocca ma mi previene: "Senta un po', lei mi bombarda di domande e non lascia a me spazio per farne a lei. Come va il movimento delle donne in Italia? E quello della pace?".


“la Repubblica”, 29 gennaio 1986  

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