“La poesia è come una
donna,
vuoi amarla ogni giorno”
“Il Corano disprezza i
poeti
ma per gli arabi erano
fondamentali.
Ho scoperto la potenza
delle parole
grazie a mio padre contadino”
grazie a mio padre contadino”
Ali Ahmad Sai‘id Esber,
Adonis, nato in un villaggio siriano nel 1930 si è laureato in
filosofia a Damasco. Poeta, scrittore, giornalista, ora vive a
Parigi. Tra le sue opere, le poesie, Memoria del vento, Storia
lacerata nel corpo di una donna, e i saggi La preghiera e la
spada, La musica della balena azzurra, Oceano nero.
«È la lingua/ che mi
abita in tuo nome – ha fatto scorrere/ il suo sangue in me in tuo
nome – ha cantato/ i nostri corpi e quel che c’è stato tra me e
te./ Che cosa sono queste lettere sparse/ dalla foresta dell’amore
in noi?». Adonis legge con cura e passione. Scorrono i versi e
scende giù il caffè libanese, troppo forte e troppo dolce, mentre
lui a tratti ride, rannicchiato nel suo appartamento parigino.
Sentimentale il più grande poeta arabo contemporaneo? «Quella
parola non mi piace. Direi che è carnale quello che scrivo. Ma
esiste sempre un pensiero all’origine di ogni composizione: come
per tutti i poeti, da Eraclito a Dante, fino a Rimbaud».
Giovedì esce per Guanda
la sua ultima raccolta, La foresta dell’amore in noi. Ci ha
messo un anno per scrivere tutte queste poesie, brevi e certe volte
brevissime (« Solo questa lapide/è rosa eterna »). Evoca esilio e
migrazioni, ma soprattutto mani, fianchi, natiche, seni e corpi. Ha
87 anni Ali Ahmed Saïd Esber, il suo vero nome. Ma è terribilmente
giovane dentro. Ancora tanta la voglia di viaggiare, raccontare,
amare.
Com’era la vita da
piccolo a Qassabin, il suo villaggio d’origine?
«Si trova sospeso fra il
mare e la montagna, nel nord della Siria. Non ho conosciuto una vera
infanzia: dai miei primi passi, ho subito fatto parte della vita nei
campi. Non c’era scuola, né elettricità. Qassabin era
poverissima».
Ma la poesia entrò
subito nella sua vita…
«Mio padre era un
contadino. Ma colto, amava la poesia araba e in particolare quella
sufi. Era musulmano, ma mistico: la sua religione non era
istituzionale. Sfogliavamo manoscritti antichi. È lui ad avermi
insegnato a leggere e scrivere. Poi, noi bambini andavamo sotto un
albero: c’erano anziani che si occupavano di noi, leggevamo
insieme».
È vero che una poesia
ha cambiato radicalmente la sua vita?
«Avevo appena 13 anni.
Choukri al-Kouatli era diventato presidente della Siria, che stava
uscendo dall’epoca del mandato francese. Venne dalle nostre parti.
Feci un sogno a occhi aperti: avrei scritto una poesia in arabo
classico, l’avrei declamata davanti al presidente e poi lui,
ammirato, mi avrebbe chiesto: “Cosa posso fare per te?”. Avrei
risposto: andare a scuola».
E allora?
«Andò proprio così. Mi
ritrovai, almeno per due anni, in un liceo francese».
Quando diventò
Adonis?
«Più tardi, a 17 anni.
Scrivevo poesie, ma non proprio classiche. Cambiavo già la metrica e
soprattutto il ritmo, l’arrangiamento musicale delle unità
metriche. Le inviavo a giornali siriani, ma nessuno le pubblicava. Un
giorno, per caso, lessi del mito di Adone, divinità della bellezza e
della caccia, amata da Astarte, diventata Afrodite e poi Venere. Un
giorno Adone era andato a cacciare il cinghiale, ma alla fine il
cinghiale, infuriato, lo aveva ucciso. Il suo sangue si trasformò in
anemone, il rosso papavero. Ecco, diventai Adonis».
Perché?
«Nella mia testa quelle
riviste erano cinghiali che volevano uccidermi… Già al primo
tentativo funzionò: pubblicarono le mie poesie. Quando mi videro, un
ragazzino, malvestito, non mi credevano. Ma quale Adone…».
Nel 1956 lei dovette
lasciare Damasco, ormai perseguitato politico. Poi dall’inizio
degli anni Ottanta si trasferì a Parigi. Dove si sente davvero a
casa sua?
«A Beirut, perché è
una città mai chiusa in maniera definitiva. Beirut è un progetto,
aperto su tutte le possibilità. È come la mia vita, un progetto
rifatto all’infinito».
Perché la poesia è
così importante nel mondo arabo?
«Prima dell’islam il
poeta pretendeva di dire la verità: la poesia dava il senso del
mondo. Con Maometto la visione è cambiata: non è la poesia che dice
la verità, ma la religione. Nel Corano si disprezzano i poeti, come
in Platone. Ebbene, all’inizio non si faceva più poesia. Ma poi,
in particolare dall’epoca abbaside, la religione è diventata solo
un mezzo per il potere. Si è messo l’islam da parte e si è
lasciata la gente pensare liberamente. Si è sviluppata di nuovo una
grande poesia. E la filosofia osava dire che la religione non poteva
spiegare il mondo. I poeti non erano credenti ma vivevano “sotto
l’egida dell’islam”, che aveva il potere politico».
Anche lei si inserisce
in questa tradizione…
«Sì, ma diciamo che
sono un mistico senza Dio. Una sola forza, che si chiama Dio, e che
dirige il mondo dall’esterno per me non esiste. Credo, invece, in
una forma di panteismo».
Cosa rappresenta per
lei questa raccolta di poesie, che sta per uscire in Italia?
«L’astrazione dello
spirito dal corpo per me è solo un fenomeno religioso, una falsità.
Il corpo umano è un tutto e, se esiste uno spirito, questo è la
pelle, il corpo, che è spirituale. E il corpo della donna è un
continente: per capirlo, bisogna rivederlo ogni giorno. Non si fa mai
l’amore due volte. Credo di avere espresso in La foresta
dell’amore in noi questo concetto meglio che altrove. Una
poesia carnale, che parte da un pensiero…».
Quale
il maggiore rischio della poesia?
«Non deve dare risposte,
altrimenti cade nella religione o nell’ideologia. La poesia non può
cambiare il mondo, ma darne solo una nuova immagine. Non è uno
strumento».
Si dice che la poesia
è in crisi, che non si legge più…
«La crisi non è della
creazione poetica, ma culturale. La storia, la rivoluzione tecnica,
la trasformazione dei media: tutto questo banalizza ciò che vi è di
più grande ed essenziale. È la mondializzazione, una crisi
culturale. L’Europa, in questo senso, vive grossi problemi. La
separazione tra la politica e la cultura diventa sempre più forte.
Così l’Europa s’islamizza. Nel mondo arabo non c’è alcun
rapporto fra la politica e la cultura. Che vuol dire: non c’è
politica».
Chi legge oggi la
poesia?
«In realtà i lettori
sono più interessanti e profondi, perché più puri: non si leggono
più le poesie in una prospettiva politica e sociale. Poi sono spesso
creatori di poesia».
Da quanto tempo non va
più in Siria?
«Dal 2010. Mia madre nel
frattempo è morta. Mi odia il regime di Bashar al-Assad, mi odia
l’opposizione. Mi odiano tutti: meglio così. La rivoluzione è
stata solo una menzogna».
Il suo sogno?
«Che ci siano elezioni
libere, sotto l’egida dell’Onu, ci credo ancora. Ne ho un altro».
Quale?
«Che non si identifichi
più il popolo siriano con il suo regime. André Parrot, archeologo
francese, diceva: ogni uomo civilizzato ha due Paesi, il suo e la
Siria. Perché la Siria è l’alfabeto. La prima epopea del mondo.
Gilgamesh. La culla dell’umanità».
“Tuttolibri La Stampa”,
1 febbraio 2017
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