Letteratura e
rivoluzione è una sorta di
storia letteraria del primo Novecento russo che Trockij cominciò a
scrivere già durante la cosiddetta “guerra civile”, quando
guidava l'Arnata Rossa, e che pubblicò a Mosca nel 1923. Da quel
libro è tratto il brano che segue, incipit della
seconda parte intitolata Alla vigilia.
Le intuizioni del rivoluzionario russo sono più valide oggi che
cento anni fa, quando le pensò e le scrisse. Non credo che siano
pensabili positivi cambiamenti nella vita dell'umanità (anche
“riformistici”, non necessariamente “rivoluzionari”) in
un'ottica che non sia internazionalistica ed internazionale. (S.L.L.)
Trockij - Comizio volante a Mosca |
«Amo il mio secolo
perché è la patria che posseggo nel tempo». L’amo già perché
mi permette di allargare di molto i limiti della mia patria nello
spazio.
Vaterlandslose
Gesellen (individui senza patria!), così l’imperatore
germanico chiamò i suoi connazionali che non si lasciavano ubriacare
dallo scalpitio equino della grandezza nazionale. Sia pure. Siano
pure privi di quella patria ufficiale che è rappresentata dal
cancelliere, dal carceriere e dal prete. Ma in vero è beato chi è
privo di questa patria, poiché eredita il mondo!
Io amo la mia patria nel
tempo, questo ventesimo secolo nato tra tempeste e procelle. Esso
reca in sé possibilità illimitate. Il suo territorio è il mondo.
Mentre i suoi predecessori stavano allo stretto dentro oasi misere di
un extrastorico deserto.
La grande rivoluzione del
XVIII secolo fu opera sì e no di venticinque milioni di francesi. La
Fayette era chiamato il cittadino dei due emisferi, e Anacharsis
Clootz si credeva il rappresentante dell’umanità. Era un’illusione
ingenua, quasi puerile. Che cosa sapevano del mondo e dell’umanità,
questi poveri barbari del XVIII secolo, che non avevano né il
telegrafo né la ferrovia? Lafayette era francese e si batté per
l’indipendenza della giovane America, il divino Anacharsis era un
barone tedesco e partecipò alle sedute della Convenzione, e alla
limitata immaginazione dei loro contemporanei pareva che questi
«cosmopoliti» unificassero in sé il mondo. Che cosa si sapeva
allora dell’immensa Russia? Di tutto il continente asiatico?
Dell’Africa? Erano termini geografici che coprivano un vuoto
storico. Né il XVIII secolo né persino il XIX conoscevano la storia
universale. Solo noi oggi siamo alla sua soglia.
La «storia universale»
di Weber o di Schlosser è una triste compilazione in cui manca la
cosa principale: il processo unitario e intrinsecamente coerente
dello sviluppo umano. La «storia universale» di Hegel è un
processo totale, ma purtroppo esso non è che un’astrazione
idealistica, in cui scompare senza lasciar traccia l’umanità
reale. Non si deve, tuttavia, accusare gli storici di ciò di cui è
colpevole la storia. È la storia che ha creato alcuni mondi chiusi -
l’europeo, l’asiatico, l’africano... — e a lungo ha respinto
ogni relazione con la stragrande maggioranza dell’umanità. Anche
gli storici che non si accontentavano della cronologia delle spade
incrociate e volevano essere storici della cultura, in fondo avevano
che fare col fior fiore di poche nazioni. Le masse popolari
costituivano l’elemento extrastorico. La storia era aristocratica
come le classi che la facevano.
Il nostro tempo è grande
— e degno di pietà è chi non se ne accorge! - proprio perché ha
posto per la prima volta le basi della storia universale. Sotto i
nostri occhi esso trasforma il concetto di umanità da una finzione
umanitaristica in una realtà storica.
L’arena delle azioni
storiche diventa immensamente grande e il globo terrestre
paurosamente piccolo. Le rotaie delle ferrovie e i fili del telegrafo
hanno rivestito tutto il globo terrestre di una rete artificiale
quasi si trattasse di un mappamondo di scuola.
Prima dell’avvento del
capitalismo il mondo era campagna. Il capitalismo è venuto e ha
svuotato i serbatoi delle campagne, questi vivai dell’ottusità di
una nazione, e ha stipato di carne e di cervello umano i bauli di
pietra delle città. Superando ogni ostacolo ha avvicinato
fisicamente i popoli della terra, e sulla base di queste loro
relazioni materiali ha svolto un’opera per la loro assimilazione
spirituale. Il capitalismo ha messo sottosopra le vecchie culture e
ha dissolto spietatamente nel proprio cosmopolitismo di mercato le
combinazioni di stagnazione e pigrizia, che erano considerate
caratteri nazionali costituitisi una volta per sempre.
Da
Letteratura e Rivoluzione (a cura di Vittorio Strada),
Einaudi 1983
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