Argan
parte dallo scherzo delle false sculture di Modigliani, dall'abbaglio
da lui stesso preso come da molti altri e da un intervento di Guttuso
che aveva definito un “grande falso” tutta l'arte moderna, per
riproporre il tema tipicamente novecentesco della morte dell'arte.
Vale la pena di una lettura e di una riflessione diretta anche a che
cosa è venuto dopo. (S.L.L.)
Sapevo
che la penosa questione delle pietre di Livorno avrebbe riempito
d'orgoglio i padri dei ragazzini che disegnano meglio di Picasso;
facendo leva sullo sbaglio dei critici si sarebbe prima o poi
arrivati a vilipendere, con Modigliani, tutta l'arte moderna, come ai
bei tempi di Thovez e Ojetti. Non m'aspettavo però che li avrebbe
confortati dall'alto del suo prestigio Renato Guttuso, affermando
che, tutta l'arte moderna essendo una vistosa mistificazione, non si
riesce più a distinguere, in quello che fa, ciò che è vero da ciò
che è falso.
Protesto:
le pietre di Livorno sono falsi tecnici e avrei dovuto accorgermene,
ma l'arte moderna non è un falso ideologico e rifiuto la
giustificazione che Guttuso mi porge facendo un errore molto più
grave del mio. Dei critici sono stato il più maltrattato, accusato
d'aver detto cose né pensate né dette. Non ho mai gridato al
capolavoro: dissi che si trattava di abbozzi incompiuti, ripudiati e
buttati. Potevano anche essere autografe, dissi e sbagliai, ma non
erano autentiche, dacché la prima dichiarazione d'autenticità è
quella che dà l'artista licenziando l'opera. E fin da principio
sollecitai invano un accertamento scientifico che stabilisse, finché
era possibile, la durata dell'immersione, essendo questa una prova
indiretta ma certa.
Fui
deriso col senno di poi dai critici tutt'occhio, che però non
s'erano accorti del falso prima che se ne vantassero i tre burloni.
Declino l'assolutoria che Guttuso porge alla critica ingannata, ma
gli rendo merito d'aver levato il dibattito dalla melma del fosso e
della beffa livornesi, fornendo inoltre ai suoi critici plaudenti
utili argomenti per un'analisi più seria della sua pittura. Infatti
anche lui, ancorché poi ravveduto, è stato un pittore moderno. È
stato costante e coraggioso il suo impegno civile, accesa la sua
partecipazione al dibattito culturale: sono tipici modi di essere e
di fare di un artista che, come diceva Baudelaire, voglia etre
de son temps. Del mercato, che
addita come una causa della corruzione odierna, non è stato
certamente una vittima inconsapevole; e dei critici, salvo che di me,
non ha motivo di lamentarsi. Prima di convertirsi a De Chirico gli
piaceva il gusto del rischio, la temerità di Picasso. Quando fece il
realismo socialista fu problematico e non conformista: glie ne diedi
e glie ne do atto. Non capisco dunque perché in lui la malinconia
dell'età inoltrata ed ancora operosa debba irritarsi in apostasia e
in rampogna.
Come
tutto il resto anche l'arte è in crisi; se non lo fosse non sarebbe
moderna. La sua crisi non è la stessa che mina il sistema, nasce dal
fatto che nel sistema non è più integrata né funzionale. La
rottura è generalmente attribuita alla diversità strutturale delle
tecniche artistiche rispetto al meccanismo delle industriali. Non
tanto nel mutamento delle condizioni oggettive, tuttavia, quanto nel
distacco da certi valori dati come eterni Guttuso vede la causa del
corso aberrante dell'arte moderna. Senonché l'arte mutò per
reinserirsi nella cultura contemporanea adeguandosi alla scienza e
poi alla tecnologia industriale; e invece perdette il contatto con
l'uomo, scambiò per costrizione il rispetto dei rapporti umani,
pretese una libertà ch'era invece disordine. Peggio, declinò la
comune esperienza della realtà oggettiva, dimenticò la lingua
parlata, svalutò la verosimiglianza. Punto di rottura fu
l'Impressionismo: "l'inseguimento dell'ora che trapassa,
l'abbandono di un rigore, di un organismo pittorico che costituisse
un dato di stabilità". Fu preferita l'esperienza in atto,
flagrante, all'esperienza acquisita e sedimentata, la sperimentazione
al modello, la sensazione alla nozione. Verlust der Mitte,
disse Sedelmayr per giustificare retrospettivamente la repressione
culturale dei regimi totalitari. Senonché la sensazione degli
Impressionisti non era affatto illusoria e precaria: Bergson
l'assunse come "dato immediato della coscienza" e su di
essa costruì una nuova concezione dello spazio e del tempo. E non
direi proprio che Cèzanne e Seurat abbiano intuito il pericolo e
cercato un rimedio; anzi, sistematizzarono quella conoscenza del
reale attraverso l'istantaneo e il frammentario.
Sulla
petite sensation, che
Proust chiamerà impression vèritable,
Cèzanne costruì una filosofia con la pittura (e lo riconobbe un
filosofo, Merleau-Ponty) e Seurat una nuova scienza della percezione.
La sensazione, infatti, non era casuale nè spontanea, la si
raggiungeva rimuovendo nozioni inveterate e pregiudizi ancestrali
attraverso un processo critico, che rientrava nella tesi
illuministica del criticismo distruttivo di ogni dogmatismo e di ogni
principio di autorità. Da quel criticismo, che sostituiva il dubbio
metodico alle sistematiche certezze, mosse il processo di
secolarizzazione del sapere, che inevitabilmente coinvolse anche
l'arte. Si superò così la trionfale confessionalità dell'arte
barocca, notoriamente larga di molte libertà, purché non
contraddicessero ai grandi principi dommatici: ed è strano davvero
che gli eterni valori da Guttuso rimpianti siano quelli istituiti
dalle poetiche barocche, dall'Agucchi al Bellori. Precisamente:
l'arte come lingua parlata e discorso, il verosimile o possibile come
disciplina dell'immaginazione, la natura modello, la storia maestra.
Secolarizzandosi,
come tutte le altre discipline, l'arte ha cessato di presumersi
eterna: come avrebbe potuto essere insieme eterna e moderna? Una
volta ammesso che l' arte è cosa terrena e mortale, ed ebbe
principio quando certe circostanze si determinarono nella storia
della civiltà, così non si può non ammettere che avrà fine quando
si determineranno altre circostanze che la escluderanno dall'
architettura del sistema. E' compito degli storici, e non solo degli
storici dell' arte, dire se tali circostanze si siano date o siano
per darsi. Sappiamo quale mutazione profonda si vada compiendo nel
mondo: da una cultura di classe all'informazione di massa, dallo
storicismo umanistico a uno scientismo tecnologico, da una civiltà
dei valori a una civiltà (se sarà tale) dei bisogni e dei consumi.
È in crisi lo stesso concetto di valore e si fa strada purtroppo
l'idea che, comunque, a mutare il sistema dei valori non sarà una
rivoluzione, cioè un'ideologia, bensì la tecnologia.
C'è
divario radicale, anzi contraddizione, tra la struttura e i metodi
operativi delle arti e della tecnologia industriale ormai egemone. Ci
sono ancora, da parte della cultura umanistica di cui l'arte è stata
un fattore strutturante, punti di resistenza e perfino di vivace
reazione, ma tutto fa credere (anche l'articolo di Guttuso) che
stiano per estinguersi. Essendo la morte dell'arte questione di
tempo, credo giunto o vicino il suo tempo.
L'arte
ha avuto una parte grandissima nella storia della civiltà che
finisce: e tutti i giorni vediamo a che punto di degradazione e
disgregazione la società industriale e capitalistica abbia ridotto
il patrimonio culturale e l'ambiente. Ne ha fatto materia di
sfruttamento brutale, ne ha distrutto il valore riducendolo a prezzo.
Incombe sul mondo non solo il pericolo, ma l'angosciosa attesa di una
guerra nucleare e della fine di tutto. È logico che in questa
condizione l'arte, come le altre discipline a struttura storica, sia
consapevole della propria fine inevitabile, viva cioè,
coscientemente, l'esperienza della propria morte. In tutto il suo
passato l'arte ha avuto una parte essenziale nella definizione del
concetto di valore: credo obbiettivamente impossibile la
sopravvivenza dell'arte in una società che emargini o rimuova il
concetto di valore affinché non costituisca remora al consumo. Il
problema della morte dell'arte si pone anche sul piano teoretico, in
rapporto al concetto hegeliano di morte dell'arte classica, come
conseguenza della fine della concezione del mondo e della vita che si
era espressa nell'arte classica. Guttuso ne propone la resurrezione:
ma come può esserci resurrezione se non dalla morte? E se non è
difficile individuare le cause della morte, ci dirà Guttuso quali
prospettive storiche giustifichino la previsione, e magari la
speranza, di un prossimo revival dell'arte classica?
“la
Repubblica”,17 novembre 1984
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