Un intervento polemico -
bello, puntuale e al tempo decisamente controcorrente - teso a
ridimensionare Virginia Woolf, al tempo “mostro sacro” del
femminismo, e, al tempo stesso, a rivalutare dei romanzieri
“edoardiani”. Non conosco Bennett, ma condivido l'amore per
Wells, un grande, anzi un grandissimo scrittore. Chiedo scusa agli
amici e soprattutto alle amiche, ma anche a me i romanzi maggiori di
Virginia Woolf sembrano tuttora sopravvalutati. Mi pare invece che la
Arnett sottovaluti gli scritti saggistici della Woolf, soprattutto
Le tre ghinee, un testo
fondamentale nella storia del femminismo e del pacifismo. (S.L.L.)
«Da Omero alla Woolf »:
così suona quotidianamente la pubblicità della collana di una nota
casa editrice. Non «Da Omero a Joyce» (la scelta dell’autore di
Ulisse accanto a quello dell’Odissea avrebbe una sua logica). Viene
da domandarsi se qui in Italia da un po’ di tempo non si stia
esagerando l’importanza degli scritti (singolarmente molto belli)
di Virginia Woolf. Anche la stampa di sinistra dedica intere pagine a
recensioni delle traduzioni (a volte troppo affrettate) che
continuamente vengono proposte al lettore. Fatto sta che, da qualche
anno in qua, questa scrittrice eminentemente elitaria è stata
imposta al lettore italiano come lettura obbligatoria: la conoscenza
delle sue opere è considerata requisito essenziale per la persona
colta di oggi. Certamente ha contribuito a questo il suo femminismo,
che si collega, anche se in chiave diversa, ad uno dei movimenti di
massa più vivi attualmente. Non è poi da escludere che la
pubblicità data, in seguito alla pubblicazione in Italia della
biografia di Quentin Bell, alle sue relazioni lesbiche (cose risapute
da sempre in Inghilterra) non abbia contribuito a stimolare un certo
interesse « di moda » sulla vita privata dell’autrice. Solo Vito
Amoruso (Rinascita, 14 marzo 1980, e si veda del resto il suo libro
di dodici anni fa, Virginia Woolf, Bari, Adriatica, 1968) non
si è lasciato travolgere.
Forse è arrivato il
momento di fermarsi e di riflettere su una certa marginalità
dell’opera della Woolf e di tutto il Bloomsbury group di cui
essa faceva parte. Il restare fuori dalla mischia, il vivere nelle
torri d’avorio (sia pure pendenti a sinistra) crea, non si può
negare, un ammirevole distacco, ma taglia anche fuori dalla corrente,
impoverisce la quantità e la qualità della materia prima con la
quale l’artista lavora, materia che per il romanziere è il tessuto
sociale del quale fa parte. Proprio la vita della Woolf da ragazza,
nell’ambiente «aristocratico» dell’alta borghesia, con la
nursery, le istitutrici, l’istruzione altamente selettiva, l’ha
privata di qualche cosa di utilissimo negli anni formativi. Tutti gli
scrittori devono crearsi un ambiente di lavoro congeniale o almeno
tollerabile; qualche barricata contro le incursioni della vita ci
vuole — James Joyce, che scriveva pagine immortali nel trafficato
ingresso di un alberguccio con la valigia sulle ginocchia come
scrivania è un caso del tutto eccezionale. Ma Virginia Woolf passava
da un’infanzia superprotetta ad un ambiente di giovami
intellettuali. La sua esperienza di lavoro manuale si limita alla
tipografia — ma è la tipografia «a mano» messa su dalla Hogarth
Press, la sua casa editrice, per produrre edizioni numerate, senza
gli orari e le condizioni di lavoro imposte ai tipografi
professionisti — e in ogni caso, i cucchiaini da tè dovevano
essere d’argento.
Da questa posizione di
superiorità sociale e culturale, con l’aiuto di quella
discriminante essenziale che, nell’Inghilterra del suo tempo, era
un accento impeccabile, e, perché no, imponendosi anche con il
profilo indubbiamente aristocratico, Virginia Woolf ha portato a
termine un’azione di sterminio contro i romanzieri a lei
immediatamente precedenti, azione che ha avuto un successo tanto
completo quanto ingiustificato. Chi da allora apre più i romanzi di
H. G. Wells (ad eccezione di quelli di fantascienza) o di Arnold
Bennett? La grande offensiva contro questi «edoardiani» fu condotta
personalmente dalla Woolf in una conferenza divertente quanto
maliziosa dal titolo Mr. Bennett and Mrs. Brown, tenuta a
Cambridge nel 1924 e pubblicata lo stesso anno come prezioso opuscolo
appunto nella tipografia artigianale della Hogarth Press. In essa la
Woolf diverte gli ascoltatori (e i lettori) fornendo descrizioni
parallele di una vecchietta incontrata in treno (l’ipotetica
signora Brown) alla maniera di Galsworthy, di Wells e di Bennett.
L'accusa che ella lancia contro questi scrittori è che essi
avrebbero descritto tutto — quel che si vede dal finestrino del
treno, i particolari della carrozza, i vestiti della signora Brown,
di che stoffa sono, dove sono stati comprati e quanto sono costati —
senza mai arrivare a cogliere l’essenza della persona umana,
l’essenza della signora Brown. Poiché tutto questo esiste siamo
costretti a credere che la signora Brown esista. Il «signor»
Bennett «vuole indurre il lettore a immaginare questa donna per
lui». Questa frase, per la Woolf, vuole essere una critica
demolitrice — ed ebbe infatti tale effetto sul suo pubblico di
letterati. Eppure si tratta di una felice intuizione della tecnica
usata da questi scrittori cosiddetti realisti (ma spesso sottilmente
simbolisti); tecnica che consiste nel coinvolgimento diretto del
lettore: con l’attenzione al dettaglio creano un ambiente che
permette ai loro personaggi di vivere, agire e comunicare in modo
credibile.
La conferenza della Woolf
non si ferma alle parodie dei passi di Galsworthy, Wells e Bennett,
ma prosegue portando il suo argomento sul terreno legittimo della
critica, esaminando e demolendo specificamente l’opera di Bennett.
Per sfortunata negligenza, però (e certe negligenze non sono da poco
quando si tratta della reputazione di uno scrittore), la Woolf
sceglie come campione — o meglio si direbbe testa di turco — il
personaggio di Hilda Lessways nel romanzo omonimo di Bennett (1911).
Bennett, ironizza la Woolf, non sembra mai arrivare al personaggio di
Hilda: descrive le case che Hilda vede dalla sua finestra, la casa
dove Hilda abita, ci racconta tutto sulla proprietà immobiliare, ma
dov’è Hilda tutto questo tempo? «Ahimè, sta sempre lì alla
finestra». Ora, a parte l’importanza cruciale che appunto la
proprietà immobiliare avrà nella vita di Hilda, in quanto
rappresenta l’indipendenza economica senza la quale non c’è
indipendenza femminile, sta di fatto che Hilda è già nota (o
dovrebbe esserlo) al lettore di Bennett dal romanzo precedente;
infatti Hilda Lessways è il secondo volume di una trilogia. È
nel primo volume, Clayhanger, che Hilda viene presentata con
notevole maestria: dapprima se ne parla soltanto, così da creare una
certa aspettativa; ad essa, di lì a qualche pagina, segue un senso
di delusione: Hilda non è bella, rimane nell'ombra, timida,
impacciata; ha una improvvisa impennata quando difende gli scritti di
Victor Hugo, si ritrae altrettanto improvvisamente, per poi, la sera
stessa, imporsi definitivamente come personaggio, dissipando quella
delusione iniziale: Hilda infrange tutte le regole della buona
società uscendo da sola a cercare Edwin Clayhanger nel giardino
della casa di lui — è la scena centrale, il perno del primo
romanzo. E per di più la stessa scena è il perno anche del secondo
romanzo, in quanto i due libri sono paralleli nel tempo: quel che
varia è il punto di vista, quello di Clayhanger nel primo, quello di
Hilda nel secondo. La scena nel giardino si ripete identica nei
particolari, compreso il dialogo, ma con diverse omissioni o
sottolineature a seconda di quel che| è rimasto nella memoria
dell’uomo o in quella della donna. È un esperimento narrativo
notevole, che purtroppo sfugge a Virgina Woolf in quanto ne inizia la
lettura (e la sua critica) con il secondo volume, ignorando
l’esistenza del primo. È come giudicare l’Ulisse di Joyce
iniziando la lettura dal quarto capitolo.
Eppure questa lettura
parziale le permette di concludere a proposito degli edoardiani: «I
loro strumenti non sono i nostri strumenti — per noi quelle
convenzioni significano la rovina, quegli strumenti significano la
morte»; dove per «noi» si devono intendere, come risulta dal
contesto, Lawrence, Joyce, Forster e la Woolf stessa. Trovo che in
questo discorso almeno Lawrence e Joyce sono collocati molto male:
non c’è soluzione di continuità fra Wells, Bennett, il Lawrence
di Figli e amanti e il Joyce di Gente di Dublino.
Lawrence e Joyce ben sapevano, come Wells e Bennett, che l’ambiente
sociale, compresa la casa, contribuisce alla sostanza stessa del
personaggio, fa del personaggio, specialmente quello femminile,
quello che è. Per la signora Morrell in Figli e amanti, come per
Hilda nel passo citato dalla Woolf, il fatto di abitare in una casa
con un po’ di giardino in più rispetto a quello dei vicini
definisce l’esatta posizione sociale (Lawrence come Bennett ci fa
notare, cifre alla mano, quanto di più vale quella casa), ed è
l’esatta posizione sociale che determina poi le scelte e i
comportamenti.
Ma la critica di Virginia
Woolf fu subito presa per buona — tanto più che (lo si deve
riconoscere) fu negli anni immediatamente successivi, fra il 1925 e
il 1928 che pubblicò quelle che Sergio Perosa definisce giustamente
le sue opere più significative e centrali, La signora Dalloway,
Gita al Faro e Orlando, le opere per le quali davvero
dovrà essere ricordata (si veda appunto V. Woolf, Romanzi ed
altro, a cura di S. Perosa, Mondadori 1978). È ingiusto che
queste sue indubbie conquiste personali unite alla sua arroganza
critica abbiano fatto dimenticare altri romanzi pur tanto ricchi,
studi dell’uomo e soprattutto della donna nel suo habitat, e
fortemente condizionati da quell'habitat. Chi in Italia legge oggi
Anna of the Five Towns di Bennett, Ann Veronica di
Wells o risalendo più indietro, The Odd Women di Gissing? Uno
spiraglio di luce si è aperto con la recente traduzione di
Tono-Bungay di Wells (qui, se non altro. La Repubblica ha
dedicato un paginone con il contributo di Umberto Eco — anche se
poi parlava di altro — e un buon commento informativo di Beniamino
Placido). È in Tono-Bungay che Wells si pronunciava
lucidamente sulla società del suo tempo — una valutazione che
serve a spiegare molte cose anche dell’Inghilterra di oggi, una
visione gerarchica che certo non interessava a Virginia Woolf, ma con
la quale il romanzo non può non fare i conti: «Al di sopra di te
c'erano i tuoi superiori, al di sotto c’erano i tuoi inferiori, e
c’erano perfino taluni di collocazione talmente dubbia e incerta
che, almeno temporaneamente e ai fini di sbrigare le faccende di ogni
giorno, saresti stato giustificato nel considerare tuoi pari ».
Alle altezze
intellettuali di Bloomsbury queste innumerevoli distinzioni
sfuggivano, di lassù non si scorgeva la lotta della gente per salire
anziché scendere la lunghissima e strettissima scala sociale, dove i
vicini di casa, a seconda di qualche metro quadrato in più o in meno
di giardino, venivano collocati un gradino più su o uno più giù.
Non è l’Inghilterra che emerge dalle pagine di Virginia Woolf ma è
indubbiamente ancora oggi l’Inghilterra di Margaret Thatcher.
“Rinascita”, 23
maggio 1980
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